Si chiamava Angela Veronese, era nata nel 1779 ed era figlia di un giardiniere. Autodidatta, fu considerata un’enfante prodige. Venne accolta nei circoli letterari legati all’Arcadia come un fenomeno: finalmente dopo tante finte pastorellerie una pastorella vera! La Veronese stette al gioco e per compiacere le mode prese il nome impegnativo di Aglaia Anassillide. Aglaia è il nome di una delle tre Grazie mentre Anassillide fa riferimento all’Anaxus, il Piave dei Romani, indicando dunque la sua zona d’origine. La sua autobiografia è gradevole, molto efficace, ironica, diretta. Famoso il ritratto gustoso dei Foscolo: il poeta ci viene presentato con tratti piuttosto selvatici, ha «le labbra grosse come quelle d’un Etiope», una «sonora ed ululante voce», e infine si avvicina a lei «più che non permettesse la decenza della vita civile».
Nel brano selezionato, datato al 1810, descrive con disincanto il monastero camaldolese del Rua, dandoci una testimonianza dello stato di abbandono in cui quello versava, riferendo un modo tutto laico e irriverente di considerare il destino dei monaci: «obliati non so se dai viventi, o dalla morte». Siamo negli anni delle imprese napoleoniche e Aglaia è esponente di una cultura laica, molto severa nei confronti dei monaci poltroni, ignoranti, socialmente inutili. Interessante è inoltre la descrizione dei paesaggio collinare‑termale intorno a Abano definito addirittura un infernale paese, abbandonato dalla misericordia di Dio. Interessante perché Aglaia si dimostra capace di liberarsi degli stereotipi arcadici, per ridarci l’immagine più realistica di un ambiente aspro, sterile e selvatico.
Una visita al Rua e alle terme aponensi nella primavera del 1810
Passai tutta quella stagione ospite della Clementina Caldarini sui Colli Euganei nella villa di Torreggia, vicina al monte Rua, ove vivevano ancora alcuni Camaldolesi obliati non so se dai viventi, o dalla morte. Nei tempi andati la loro dausura sull’articolo Donne era rigorosissima; ma allora che io mi portai a vedere quella sacra solitudine, era permesso di andarvi ad ogni persona. Mi feci portare fino alla metà della strada da una vecchia somarella, che mi fece ricordare quella dell’antico Balaam; tanto era restia, poltrona, e loquace nel suo linguaggio, che io non avea la fortuna d’intendere come il profeta. Giunsi stanca in cima al benedetto Rua, e fui tosto graziata da quei poveri anacoreti di alcune frutta secche avanzate ai tarli ed ai topi, e di una torta di erbe così amare che mi avvelenarono la bocca. Fui a vedere il convento, e la chiesa che non mi dispiacque, benché privo l’uno di abitatori e l’altra di adoratori. Quello che mi andò estremamente al cuore fu il sempreverde bosco di abeti, che coronava la cima del monte, e racchiudeva nel suo ombroso recinto il solitario convento. Mi ricordai il caro bosco del Montello, e discesi dalla Certosa di mal umore, come l’asinella che mi riportò sulla logora sua groppa al piano di Torreggia.
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Nel ritorno che feci dai Colli E ei a Pontelongo mi fermai ad ammirare le famose Terme Aponensi. E’ stato tanto detto in prosa ed in verso sulla singolartità di queste acque che diviene inutile ogni relazione. Dirò solamente, che mi parve di vedere i bollenti stagni di Acheronte, parlando poeticamente; e, parlando fuori di poesia, mi parve di essere in un paese abbandonato dalla misericordia divina, come una seconda Sodoma. il colore, l’odor sulfureo, e la sterilità della nuova Dite mi fecero partire senza far ulteriori osservazioni su quell’infernale paese.
Da Versi di Aglaia Anassillide aggiuntevi le notizie della sua vita scritte da lei medesima, Tipografia Crescini, Padova 1826.