cibo – bibliografia

Una cucina euganea

Non si può certo parlare di una cucina euganea, anche se l’unicità del territorio, una sua personalità ambientale e visiva ben definita — per quel suo staccarsi come isola nel mare delle pianure – può determinare nella perceazione collettiva il riconoscimento di una qualche tipicità. Per via dei prodotti, innanzitutto, quel vino e quell’olio che sono stati parte integrante del paesaggio e della sua storia, per la frutta, gli animali del cortile, per via della caccia, un tempo molto diffusa, per finire coi prodotti del bosco e quei gamberi di monte che offerti ai membri della confraternita convenuti sul Venda per la festa di san Giovanni, costituivano una prelibatezza, non così élitaria come oggi sono. 
Ma quel che caratterizza forse la cucina euganea nel sentire comune che la individua e ne precisa i contorni è una sorta di naturalità e genuinità — quel bon snaturale di cui parla il Ruzante — per cui l’evasione verso i Colli che nei secoli ha attratto fasce sociali e gruppi diversi (dal villeggiare del nobile veneziano Alvise Cornaro, ai villini della borghesia padovana nel primo Novecento, all’afflusso di massa con le lambrette negli anni Settanta) si è spesso accompagnata nella mentalità ad un ritorno alla semplicità del mangiare sano e robusto, talvolta propenso all’abbuffata ed all’eccesso. 
E se qualche piatto può essere emerso nella cultura alta della gastronomia dei trattati di corte come i “pippioni torraiuoli” nel libro del “trinciante” Mattia Geigher, o le “pomele” nei ricordi dell’esule Giuseppe di Castelvetro (cioè quelle olive, così indicate nella parlata locale), il mangiare euganeo è però vissuto come prossimo al filone della tradizione contadina veneta in genere, ispirato anch’esso ai valori della semplicità e della povertà, ma sarebbe più giusto dire alimentato dalla necessità e dalla penuria. 
Una ricognizione sugli aspettti storico culturali della cucina euganea abbiamo in: 
Giorato S., Per una storia dell’alimentazione nei Colli Euganei, in I Colli Euganei, a cura di F. Selmin, Sommacampagna (VR), Cierre, 2005, p. 379-383.

Sulla storia dell’alimentazione in generale

Opere di storia riferite al cibo e all’alimentazione che meritano una consultazione preliminare: 
Alberini M., Storia del pranzo all’italiana, Milano 1966. 
Andreolli B., Il ruolo dell’orticoltura e della frutticoltura nelle campagne dell’Alto Medioevo, in “L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo”, Settimane di Studio del Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo 30 marzo – 5 aprile 1989, I, Spoleto 1990, p. 175-211. 
Atlante dell’alimentazione e della gastronomia, a cura di M. Montanari e F. Sabban, Torino, UTET, 2004. 
 
Camporesi P., Il pane selvaggio, Bologna 19832
Camporesi P., La terra e la luna. Alimentazione folclore società, Milano 1989. 
Capatti A. – Montanari M., La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari 1999. 
Carnevale Schianca E., Tractatus de modo preparandi et condiendi omnia cibaria, “Appunti di gastronomia”, n. 26, giugno 1998);  
Cucine medievali: secoli XIV e XV, in J. L. Flandrin e M. Montanari, “Storia dell’alimentazione”. Laterza 1997;  
Eco U., Storia della bellezza, a cura di U. Eco, Milano, Bompiani 2004. 
Elias N., La civiltà delle buone maniere, Bologna Mulino 1982. 
Fabbri Dall’Oglio M. A., I sapori perduti, Garamond 1993;  
Faccioli E., La cucina, in Storia d’Italia. I documenti, V/I, Torino 1973, p. 981-1030. 
Flandrin J.L. — O. Redon, Les livres de cuisine italiens de XIV et XV siècles, in “Archeologia medievale”,  medievale”, VIII, 1981);  
Flandrin J.L., Il gusto e la necessità, Milano Il Saggiatore 1994. 
Giacomello A.,  La cucina in Italia al tempo di Pellegrino: libri di ricette e tradizioni culinarie tra Medioevo e Rinascimento, in “Quaderni guarneriani”, n. 1 nuova serie, 1998
Harris Marvin, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Torino, Einaudi, 1990 che basa la sua analisi su presupposti non di natura simbolica ma economica e funzionalista. Sfocia in una sorta di metafisica. 
Laurioux  B.,  primi libri di cucina, in ‘La cucina e la tavola”, Dedalo 1987;  
Lévi-Strauss C., Il crudo e il cotto, 1966 / Dal miele alle ceneri 1970; Le origini delle buone maniere a tavola, 1971) 
Libri (I)  di cucina, in Catalogo della Mostra “‘ … Et coquatur ponendo … Cultura della cucina e della tavola in Europa tra Medioevo ed Età moderna“, Prato, Istituto Francesco Datini,1996;  
Libri (I) di cucina italiani alla fine del Medioevo: un nuovo bilancio, in “Archivio storico italiano”, CLIV, 1996;  
Livres (Les) de cuisine médiévaux, in “Typologie des sources du Moyen Age Occidental”, fasc. 77,1997; Benporat C., Storia della gastronomia italiana (Mursia 1990);  
Manuscrits (Les), sources fondamentales de l’histoire de la gastronomie italienne, in “B.IN.G.” 1994;  
Maggi B., Manoscritti italiani di cucina tra ‘300 e ‘400, in “Appunti di gastronomia”, n. 22, febbraio 1997);  
Marwick Arthur, Storia sociale della bellezza, Milano, Leonardo, 1991. 
 
Mondo (Il) in cucina. Storia, identità, scambi, a cura di M. Montanari, Roma-Bari 2002, dove si segnalano i saggi: 
Riera-Melis A., Il Mediterraneo, crogiuolo di tradizioni alimentari. Il lascito islamico alla cucina catalana medievale, p. 3-43. 
Laurioux B., Identità nazionali, peculiarità regionali e “koinè” europea nella cucina del Medioevo, p. 45-70. 
Flandrin J. B., La cucina europea moderna: un crocevia di esperienze culturali (XVI-XVIII secolo), p. 71-85. 
Montanari M., Bologna grassa. La costruzione di un mito, p. 177-196. 
 
Montanari M., L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli 1979. 
Montanari M., Vegetazione e alimentazione, in “L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo”, Settimane di Studio del Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo 30 marzo – 5 aprile 1989, I, Spoleto 1990, p. 281-322. 
Montanari M., Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-Bari 19955, (Quadrante 18). 
Montanari M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari 1997 (Economica Laterza, 97). 
Montanari M., Cucina povera, cucina ricca, “Quaderni medievali”, 52 (2001), p. 95-105, ripubblicata con piccole modifiche, col titolo La cucina scritta come fonte per lo studio della cucina orale, “Food and History”, 1/1 (2003), p. 251-259. 
Montanari M., Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2004 (I Robinson. Letture). 
Montanari M., Il cibo come linguaggio, presentata al 52° Convegno del Centro italiano di studi sull’alto ME, Comunicare e significare nell’alto Medioevo, Spoleto, 2004 nei cui Atti sarà pubbblicata. 
Nada Patrone A. M., Il cibo del ricco ed il cibo del povero. Contributo alla storia qualitativa dell’alimentazione. L’area pedemontana negli ultimi secoli del Medio Evo, Torino 1981. 
Nada Patrone A. M., Gruppi sociali, regimi alimentari e malattie alla fine del medioevo, “Cultura e scuola”, 98 (1986), aprile-giugno,p. 71-81. 
Naso I., La cultura del cibo. Alimentazione, dietetica, cucina nel basso medioevo, Torino 1999. 
Neri V., La bellezza del corpo nella società tardoantica. Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica e cristianesimo, Bologna, Patron, 2004. 
Peruzzi M. – Montanari M., Porci e porcari nel Medioevo. Paesaggio economia alimentazione, Bologna 1981. 
Redon O. — Bertolini L., La diffusione in Italia di una tradizione culinaria senese tra Due e Trecento, in “Bullettino senese di Storia Patria”, 1995;  
Scully T., L’arte della cucina nel Medioevo, Casale Monferrato, Piemme, 1997;  
Roversi G., Sapori e profumi del Medioevo. Ricette, civiltà della tavola e piante aromatiche in uso nel ‘300 dalle opere di Olindo Guerrini e Pier de’ Crescenzi, Bologna, Atesa, 2003 (Gastronomica, Collezione di opere rare e curiose sulla civiltà della tavola, 9). 
Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1984. 
Sereni E., Terra nuova e buoi rossi e altri saggi per una storia dell’agricoltura europea,Torino 1981, con particolare riferimento al saggio Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i Napoletani da “mangiafoglia” a “mangiamaccheroni”, p. 292-371. 
Serventi S.- Sabban F., La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, Roma-Bari 2000. 
 
Apporti preziosi sono alcuni recenti studi usciti in “Appunti di gastronomia” e dovuti ai già citati Claudio Benporat (Maestro Martino e i suoi ricettari, n. 14, giugno 1994; La cucina dei 12 ghiotti, n. 22, febbraio 1997; “Hic est liber coquinarum bonarum”. Ms. 319 della Biblioteca Comunale di Chálons sur Marne, n. 23, giugno 1997;” Modo singulare de cocina”. un inedito ricettario meridionale, n. 29, giugno 1999) e Carmelo Spadaro di Passanitello (La fonte vaticana dei primi libri di cucina italiani, in “Appunti di gastronornia”, n. 5, giugno 1991; Il codice Bühler 19 della Pierpont Morgan Library di New York, n. 9, ottobre 1992; Relazioni tra il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino e i rucettari  italiani rinascimentali, n. 14, giugno 1994; il Ms. Westerne 211 e l’influenza iberica sulla cucina dell’Italia centrale, n. 30, ottobre 1999). 

Trattati di gastronomia

Se è pur vero che la cucina popolare non ha ricettari, assistiamo talvolta all’emergere di costumi popolari nei ricettari destinati al signore che prescrivono, ad esempio, di preparare cavoli delicati (Verze e capuzi nel parlare locale) — così nel Liber de coquina –  e impiegano cardamone, erbe odorifere, cipolle e porri, ma ingentilite per l’uso del signore. Vale la pena, perciò, consultare anche i  classici trattati di gastronomia che sono raccolti in: 
L’arte della cucina in Italia. Libri di ricette e trattati sulla civiltà della tavola dal XIV al XIX secolo. A cura di Emilio Faccioli, Torino 1987. Tra essi segnaliamo il: 
Bacci A., De naturali vinorum historia de vinis Italiae et de conuiuiis antiquorum…, Romae 1596, le pag. 320-326 sono dedicate ai vini veronesi e proseguono con i vini padovani, vicentini e della marca trevigiana. 
Giegher M., Li Tre Trattati, pubblicato a Padova  nel 1639 (ripr. anast. Bologna Forni 1989) dove si fa cenno ai  Pippioni torraiuoli, o torrigiani, come chiamar li vogliamo, se ben’anch’essi son buoni in ogni mese dell’anno, pur di Settembre, e d’Ottobre è la loro stagion migliore. L’autore, bavaro di Mosburg, si trovava a Padova nei primi anni del XVII secolo in qualità di “scalco” cioè addetto alla mensa e di “trinciante” della nazione “alemanna”. Il libro è diviso in tre parti: nella prima spiega come si prepara al tavola, nella seconda elenca i cibi che si possono trovare nelle varie stagioni dell’anno e nella terza — detta “il trinciante” — insegna i modi di tagliare le vivande. 
Libro di cucina del secolo XIV, a cura di L. Frati, Livorno 1899 (Raccolta di rarità storiche e letterarie, 2) poi ripubblicato, appunto, nel citato L’Arte della cucina in Italia…, p. 69-97. Testo fondamentale della storia della gastronomia, attribuito all’ambiente veneziano, pubblicato nel secolo XIV ma che risale probabilmente al Trecento e che fornisce preziose informazioni su materie prime e sul gusto dell’epoca. 
Sempre nel volume curato dal Faccioli sono contenuti altri classici della letteratura gastronomica che conviene considerare almeno quelli mediante i quali prende consistenza, secondo il Faccioli, una tradizione padana della gastronomia che si contrappone alla scuola romana e a quella toscana: 
Maestro Martino, De Arte coquinaria, manoscritto della seconda metà del XV secolo; 
Cristoforo da Messisbugo, Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivande, pubblicato a Venezia nel 1549; 
Bartolomeo Sacchi detto il Platina, De honesta voluptate et valetudine, pubblicato nella seconda metà del XV secolo; 
Bartolomeo Scappi, Libro de’ convalescenti, appendice de L’arte del cusinare, pubblicato a Venezia nel 1571. 
 
In quegli stessi anni compare una carta gastronomica d’Italia che vale la pena consultare. Si tratta dell’opera di Ortensio Landi, nato intorno al 1512, forse a Modena, e morto a Venezia nel 1553, che fu medico e letterato di una certa notorietà e visse vagabondando da una città all’altra in Italia e Europa. Nel suo itinerario gastronomico della metà del ‘500 il modenese così si riferisce alle specialità padovane: …hauerai in Padova ottimo pane, vino berzamino, luzzatelli e ranocchie perfette… dove il riferimento al vino può essere ascritto ai Colli Euganei mentre i luzzatelli sono i piccoli lucci, pesce il cui consumo era molto diffuso. Si veda: 
Landi O., Commentario de le più notabili, & mostruose cose d’Italia, & altri luoghi, di lingua aramea in italiana tradotto, nel quale s’impara, & prendesi estremo piacere … In Vinetia 1550. 
 
Un vero e proprio compendio enciclopedico, botanico e agroalimentare, dei vegetali consumati all’epoca è il trattato del 1572 del medico e botanico Costanzo Felici da Piobbico: 
Felici C., Dell’insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo dell’huomo, Urbino 1986. 
 
Tra le opere del ‘600 conviene considerare: 
L’erbolato di Tubiolo. Erbario rustico del ‘600,  a cura di F. Viero, Bassano del Grappa 1994, l’erbolario dello speziale vicentino Gabriele Angelico (n. 1610 e morto prima del 1689) è la riduzione in pavano dei Discorsi del medico senese Pietro Andrea Mattioli, un erbario di 112 stanze di nove versi. Con lo pseudonimo contadino di Tubiolo dei Gielichi l’Angelico è anche autore de La musa salbega, ossia selvatica, 356 componimenti (comprese 15 novelle in versi che fondano elementi colti e tradizione popolare) ancora inediti in cui confluiscono l’amore il sesso, la fame e il cibo, le malattie, le medicine e i rimedi erboristici. 
 
Nel Brieve racconto di tutte le radici, erbe e frutti che in Italia si mangiano, l’esule Castelvetro (che da Londra nel 1614 ricorda con nostalgia la felice terra che nobilita ogni dimessa risorsa commestibile e le cui mense offrono vivande semplici e diverse col volger delle stagioni), viene riconfermata la tradizione della cucina realmente povera di trattare le erbe come medicinali. Non solo, ma stupisce come siano rimaste inalterate per secoli ricette e ingredienti per cuocere erbe e ortaggi, in particolare se consumati dalla vil plebe o bassa plebe – come si esprime lo stesso Castelvetro, lombardo d’origine, ma veneto di cultura. Costui parlando delle pere, parla del nostro garzegnuolo (p. 159) che taluni identificano nella pera del padovano che forse trasse il nome da Galzignano sui Colli Euganei. E della vil plebe ricorda il mangiar le castagne cotte in acqua, chiamansi lesse, le quali vengono più da fanciulli e dalla basse plebe, che dagli uomini civili e maturi, mangiate. (p. 164), così come con le spongiuole che così si chiamano, egli dice, per esser tutte piene di pertugi come si veggono essere le sponghe (p. 168), e gli oveschi, i boledi. Tratta più avanti dell’antica ricetta dei sugoli. Si prenda – egli dice – del mosto anzi che abbia bollito e che vi si sia una goccia d’acqua posta, e ne facciamo, cocendolo con un poco di fior di farina, un mangiare che chiamiamo sugoli, ne’ quali assai mosto si consuma – e così egli si lascia andare a descrivere la gustosa scena – per cui quando arrivano in città i tini  i poveri artigiani che non han poderi, subito che veggono a condur l’uva a’ gentiluomini lor vicini, corrano con boccaloni a pigliar del mosto, e gran vergogna sarebbe a quel tale il ricusare di dargnene. Per l’opera si veda: 
Castelvetro G., Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano, in Gastronomia del Rinascimento, a cura di L. Firpo, Torino 1973. 
 
Si differenzia dai classici trattati l’opera di Vincenzo Tanara, nato a Bologna nei primi anni del ‘600 e morto nel 1667. La sua Economia del cittadino in villa, ispirata alle Vinti Giornate dell’agricoltura di Agostino Gallo e aull’Opera dello Scappi, è in buona parte un manuale di gastronomia, specie nelle pagine dedicate al porco, in cui si riconosce la prima e più autorevole valorizzazione della carne di maiale, del suo potere nutritivo e delle vivande che se ne possono ricavare. Buon umanista, in quelle pagine egli ci offre anche un saggio fondamentale di letteratura gastronomica: qualcosa che si affianca al “trionfo del porco” celebrato dal suon concittadino Giulio Cesare Croce. La prima edizione comparva a Bologna nel 1644. Altre 17 apparvero fino al 1761. L’opera è divisa in sette libri: 1) Pane e Vino 2) La vite e le api 3) Cortile 4) L’Horto 5) Giardino 6) La Terra 7) Il sole e la luna. 
 
Abbiamo poi, per concludere, quella “vulgata” del mangiare nazionale che fu opera nell’Ottocento di  quel Pellegrino Artusi, la cui opera merita senz’altro una consultazione: 
Artusi P., La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Introduzione e note di Piero Camporesi, Torino 1970.  
Dello stesso periodo ma riferito alla realtà locale, si veda anche: 
Cuoco (Il) di buon gusto contenente una copiosa raccolta di ricette per preparare minestre, fritture, intingoli, arrosti, pasticci ecc. ecc., Venezia 1872, che contiene molteplici riferimenti alla cucina padovana ed a piatti come i piccioni ai piselli, l’oca in stufato e al modo di preparare lo zabaione.

Ibn Sarabi e Michele Savonarola

Merita una citazione — se non altro per il volgarizzamento in dialetto padovano compiuto da Frater Jacobus Philippus de Padua su richiesta di Francesco Novello da Carrara negli ultimi anni del secolo XIV — l’opera del misterioso Ibn Sarabi o Serapione, che combina la dottrina di Dioscuride con quella di Galeno arricchita delle conoscenze della farmacologia araba e che fu compiuta nella seconda metà del secolo XI o nella prima del XII: 
Ibn Sarabi, El Libro agregà de Serapiom. Volgarizzamento di Frater Jacobus Philippus de Padua, Edito per la prima volta a cura di Gustav Ineichen, Venezia — Roma 1962 (Civiltà Veneziana — Fonti e Testi, 3). Un trattato medicofarmacologico scritto in padovano trecentesco noto anche come Erbario Carrarese che propone nomi di piante ancora correnti nelle nostre parlate. Come brusco — identificato col pungitopo – volgarizzato in epoca carrarese da frate Iacobus Philippus de Padua in lingua padovana parla del cogno, dei bruschi e delle pomele. Sull’argomento si veda: 
Cortellazzo M., Nomi di piante antichi e moderni, “Padova e il suo territorio”, 10 (1995), n. 54, p. 46-47. 
 
L’unico riferimento locale del medico e umanista Michele Savonarola — che insegnò all’Università ed esercitò l’arte medica alla corte di Niccolò III d’Este a Ferrara dal 1440 — è dedicato al vino, quel vino di collina, là dove il sole è più potente e perciò pieno di virtù salutari, come quello che a casa nostra se ritrova (forse un accenno, in questo, a un podere di famiglia situato nel Monte Zovone) ed è nobile, gentile e possente vino. 
Il Libreto… de tutte le cosse che se manzano communemente del padovano Savonarola comparve in volgare nel 1508 con un seguito di qualche ristampa e anche di arbitrari rifacimenti. Nel famoso Libreto il Savonarola espone i diversi cibi distinguendoli secondo la tipologia binaria dei piatti da cortigiani o da contadini, si veda: 
Massimo Alberini, Breve storia di Michele Savonarola seguita da un Compendio del suo “Libreto de tutte le cosse che se manzano”, con una nota di Nemo Cuoghi, Padova 1991. 
Una  edizione critica dell’opera del medico e umanista del secolo XV abbiamo a cura di Jane Nystedt in: 
Savonarola M., Libreto de tutte le cosse che se magnano. Un’opera dietetica del sec. XV, a cura di J. Nystedt, Stockholm 1988.

La cucina locale nella letteratura

Partendo da quell’Alvise Cornaro che dall’alto della sua condizione di privilegio e a conveniente distanza dal povero e dal mendico detta i suoi consigli per una vita sobria: 
Cornaro A., Scritti sulla vita sobria. Elogio e Lettere. Prima edizione critica a cura di M. Milani, Venezia Corbo e Fiore 1983. L’opera del veneziano Cornaro che ebbe casa a Padova che divenne presto centro di una piccola “corte” di artisti uscì nel 1558 e sosteneva le ragioni di una vita semplice, ordinata e sobria. Egli trascorreva anche alcuni mesi dell’anno nei Colli Euganei. Oltre ai consigli per una vita sana ed equilibrata lontana dalla crapula e dal disordine e descrive il suo mangiare che consiste in pane, la panatella, o brodetto con l’uovo, o altre tali buone minestrine; di carne mangio carne di vitello, capretto e di castrato; mangio polli d’ogni sorte, mangio pernici ed uccelli, come è il tordo: mangio ancora de’ pesci, com’è fra i salsi l’orata, e simili, e fra i dolci il luccio, e simili… 
 
Vale la pena consultare anche l’opera del mantovano Teofilo Folengo (1496-1544), non solo per gli organici episodi presenti nel suo poema, ma anche per le infinite notazioni di costume rilevabili sia nell’ultima stesura del Baldus, sia tra i passi rifiutati delle redazioni precedenti e nelle glosse poste dallo stesso autore a margine del testo nella così detta edizione Toscolana.  Si invita alla lettura di alcuni brani: 
la descrizione del Parnaso maccheronico (I, 1-63);  
la cena rustica imbandita da Berto Panada (II, 174-332);  
il racconto della scorpacciata che si fanno i frati del convento della Mottella (VIII, 656-705);  
e per finire la tirata di Cingar contro le malefatte degli osti (XI, 543-647). Per l’opera si veda: 
Folengo T., Baldus, Torino 1989. 
 
Molteplici sono anche i riferimenti gastronomici nell’opera del Ruzante, data anche la sua amicizia con Cristoforo da Messisbugo. Nella sua Prima Oratione egli eleva un autentico “magnificat” — dice il Maffioli –  cantando le lodi del territorio padovano (ci sarà pur un motivo perché lo stesso Petrarca scegliesse di morire nel Pavan, si dice) che parte dal pane, passando per quel vin sgarbozo, che dise “bivime, bivime”, e biade e frutti, ma che dire per un territorio così prodigo che perfino le siepi e i pruni offrono a piene mani al pastorello e more, e bronbiuoli e sbrogiaculi e i fossi pure con le scardove, buone alle braci,  e le rane, che in agresto son cibo da Papa. Per non dire poi dei numerosi riferimenti a torte, raffioli, ruzzolai, cialdoni, schiacciate e focacce, alle “paparele” (paste in brodo), “papardele”, “zanzarele” (brodo con uova  sbatture), ai “baldoni” (fatti con sangue di maiale a forma di salsiccia) e ai lucci, tra i  pesci. 
Questo mito della terra dell’abbondanza ha una sua continuità nella percezione collettiva. Ne è testimonianza questo passo del Gennari (Gennari G., Informazione istorica della città di Padova, Bassano 1796, p. cxxxii) che fa anche riferimento a quell’episodio in cui Costantino Paleografo sis arebbe espresso con analogo tenore: 
E se oltre a tutto ciò che del nostro Territorio si è detto … se si mettano insieme l’amenità de’ suoi colli, la fertilità delle sue pianure, e la salubrità dell’aria, non sarà chi si meravigli di Costantino Paleologo, il quale alla mensa del cardinale S. Croce in Roma ebbe a dire, secondo che affermano Paolo Merula, e Celio Rodigino, che s’ei per lo testimonio di santi uomini non sapesse, che il Paradiso terrestre era situato in Levante, avrebbe creduto che fosse stato nel Padovano. 
E’ di notevole interesse, per tornare al Ruzante, e di ambientazione locale — sopra una delle nostre montagnette di Este — quell’immagine della caccia che protegge il podere dell’Allegrezza (con i bracchi che si disperdono tra i colli rincorrendo una lepre), protagonista di quel sogno con forti accensioni filosofiche che Ruzante svolge nella sua Lettera all’Alvarotto, uno degli ultimi lavori suoi, databile al 1537.  Perché, si dice, un’ora di vita di chi sa di esser vivo è più vita di chi vive tutta la sua vita senza saper d’esser vivo, cioè senza coglierne la pienezza, ed è come se non avesse mai avuto vita  in vita sua.  I personaggi  del Benarrivato, dell’Appetito e del  Sapore che apparecchiano un mangiare da abate e della Veglia che giunge con un gabbano pieno di rape che butta sul fuoco e porta nel grembo pomi e castagne per trascorrere una serata in allegra compagnia, sono tutte figure che allietano questo podere mitico — una sorta di Eden primordiale — dominato da Madonna Allegrezza, che è parona al vivere umano e che si può raggiungere cogliendo quel bon snaturale che è prima di ogni artificio delle consuetudini della cultura e del vivere civile. 
 
Nel Seicento spicca la testimonianza di Carlo Dottori con i suoi molteplici riferimenti alla caccia nel dominio avito degli Este tra il Cero e Calaon, al moscatello, ai fichi di Teolo ed alla galline di Polverara grandi come oche (Di più di dieci di Polverara, / che parean oche, e trentasei ricotte / cavate allora allor dalla caldara, / e sessanta bianchissime pagnotte, / ch’eran di pan buffetto, e nella chiara / e famosa Camatta eransi cotte; / quella Camatta, il cui mirabil forno / incanta chi gli va due volte intorno). 
Dottori C., L’Asino, Noventa Vicentina 1998. 
 
Dell’inizio del ‘600 segnaliamo un testo che non è opera letteraria ma che oggi per il nostro scopo potremmo rubricare come tale: si tratta della Descrittione di Padoa di Andrea Cittadella, oggi disponibile nell’edizione curata da don Guido Beltrame, recentemente scomparso: 
Cittadella A., Descrittione di Padoa e suo territorio con l’inventario Ecclesiastico brevemente fatta l’anno salutifero MDCV, Conselve 1993. Esso contiene molti riferimenti al cibo ed ai prodotti dei Colli a cominciare da Arquà che viene descritta come cantina, e frutteria Padoana per li buoni frutti, e feraci vini ha in collina, de moscatello, pinello, garganego, schiavo, margemino… (p. 130) e Boccon, similmente dovitioso de belli vignali, de boni pergolati d’uva… (p. 118),per non dire di Teolo che ha vigne et arboscelli in colli fruttiferi posti sopra grandi incavati nel terreno a guisa di Teatro (p. 116). Nel testo si fa riferimento anche alla festa di San Giovanni che si celebra sul Monte Venda per la quale grande è il concorso di popolo e, aggiunge, a quali poveri concorrenti vi si da pane, e fagioli cotti ( a similitudine forse dei gnochi [che] si danno a S. Zen in Verona la matina del venere grasso), p. 125.  
Abbiamo poi il Portenari – Portenari A., Della Felicità di Padova, Padova 1623 (rist. anast. 1973) – che conviene con Costantino Paleologo per dire che se non si sapesse dalla Scrittura che il Paradiso terrestre era altrove, si potrebbe pensare che nelli amenissimi colli Euganei avesse sede, poiché son monti ripieni di ogni grazia  che somministrano alla città olio delicatissimo, e producono uve, d’ogni sorte in tanta abbondanza, che non solamente bastano per Padova, ma ne vien portata grandissima quantità a Venezia, e in altri luoghi. E così Arquà è luogo cultissimo e abbondante di soavissimo vino e frequentato dai forestieri; Baone è pieno di olivi, alberi da frutto e viti; vigne ed uliveti sono anche sul Gemola; così il Monte delle Croci, Rovolon e Monte Ricco — così detto per la ricchezza di frutti ed uve che produce. Amenissimo è Teolo e Luvigliano è luogo da prencipe
 
Ancora riferimenti al cibo e agli Euganei troviamo in opere più recenti 
In una scena connotata di forte realismo, tratta da un racconto autobiografico di Aglaia Anassillide, troviamo una notazione legata al “vissuto” del cibo che merita una segnalazione: 
[Veronese A.], Versi di Aglaia Anassillide aggiuntevi le notizie della sua vita scritta da lei medesima, Padova 1826. Ecco la memoria di quel povero cibo offertogli dai monaci (p. 73): 
“… Giunsi stanca in cima al benedetto Rua, e fui tosto graziata da quei poveri anacoreti di alcune frutta secche avanzate ai tarli ed ai topi, e di una torta di erbe così amare che mi avvelenarono la bocca…” 
 
Pastò L., Poesie, Comune di Bagnoli 1982, con le molte liriche dedicate al vin friularo, alla polenta, al pane, al zabagion
Brevi passaggi sul cibo si possono trovare in fonti impensabili. Si veda ad esempio lo sbirciare tra i rami di Arrigo Bocchi in un sorta di Guida dei Colli del 1830 (Bocchi A., Alcuni giorni ai Colli Euganei, Venezia 1830, p. 69) che gli fa scorgere una scena dal sapore realistico: 
“…La vidi di soppiatto tra i dumi, e i cespugli del sentiere che dal colle di Lispida guida a quello di Reniero , e quinci al lago delle 5 fonti. … All’ombra poscia d’un faggio s’assise, e tratte di tasca poche noci, e alcuni pani a ristorarsi si diede, mentre un picciol gregge pensolando per le verdi rive dei borri vicini pilucava le tenere erbette…” 
Oppure nel racconto di taglio realista del romanziere americano Howells (1837-1920) che fu console a Venezia dal 1860 al 1865: 
Howells W. D., Pellegrinaggio alla casa del Petrarca in Arquà, riportato in “Padova”, 3 (1957), n. 4/5, p. 3-13, con nota introduttiva e versione dall’originale di G. Vaccari: 
Il nostro pranzo era pronto quando ritornammo all’osteria e ci sedemmo di fronte ad un pollo arrostito nell’olio e ad un boccale di vino bianco di Arquà. Era un pasto modesto, ma l’olio mi piaceva e lo trovai saporito; il vino poi era forte e buono, anche se trovano da ridire sul prezzo del pollo quando il padrone  si curvò sul tavolo e ci fece il conto con un pezzo di gesso… (p. 12). 
Contengono riferimenti al cibo anche le numerose opere del’abate Barbieri che fu per molti anni a Torreglia. Gustosa questa sua immagine del vecchio parroco di Torreglia, uomo grosso e giovialone, soddisfatto dell’aria buona dei Colli che gli faceva digerire civaje, polenta e salsisocciotti, quando ce n’ho. (Il brano è in Barbier G., Il Monte e il piano, in Barbieri G., Veglie Tauriliane, Padova 1821, p. 79. Lo stesso autore nel poemetto I Colli Euganei offre ancora alcuni riferimenti alle chiomate vigne e gli arboscelli fruttiferi e ai lanuti armenti che fanno materni questi Colli ricchi di granose spiche, e di uve e d’olive balsamo, e di frutta, / Di zuccheerosi fichi, e d’auree pesche, / E di rosate mele… (p. 18-19). 
 
Nell’opuscolo: 
L’Arte del magnar e del bevare nel Veneto. Poesie dialettali, Abano Terme 1964 (19692), premio di Poesia promosso dal cenacolo l’Hostaria de l’Amicissia spiccano alcuni componimenti che celebrano specialità locali come: 
Polenta e oseii, Agno Berlese; 
La renga, Dino Durante jr 
La mejo sena del contadin veneto, Franco Stivanello, dove si fa riferimento al piatto: Salado coto sora la gradela, / Polena tenarina e brustolà, / Vin rosso e fresco dentro ‘na scodela / E de radicio alquante spironà… /

La cucina dei Colli in opere di carattere storico

Opere a carattere storico che contengono riferimenti alla cucina o ai prodotti dei Colli e territori limitrofi: 
Bortolami S., Il paesaggio euganeo ai tempi del Petrarca, “Padova e il suo territorio”, 18 (2003), n. 106, p. 21-26; con lo stesso titolo ma in forma più ampia il contributo compare anche in: 
Bortolami S, Il paesaggio euganeo ai tempi del Petrarca, in Francesco Petrarca e il Veneto. Atti del Convegno (Padova e Arquà Petrarca, 18-19 ottobre 2002), a cura di A. Alessandri, Ill. di A. De Rossi, Montemerlo 2003, p. 25-56. Nell’articolo si osserva come prati e boschi dei Colli fossero praticati sin dal Medioevo per raccogliervi erbe medicinali e odorose, funghi, corbezzoli, miele selvatico. Un registro del primo Quattrocento contempla fra le primizie inviate dai Colli a Ferrara, alla corte dei marchesi d’Este, anche altri prodotti spontanei della natura, come sparesi e ramponzoli, assieme a ciliegie, mandorle e giuggiole (çuçole). Clima asciutto e favorevole esposizione aveva indotto la coltivazione di alberi da frutto sin dal Medioevo, fatto che si può dedurre da toponimi oggi scomparsi ma illuminanti come Cesure dai Perari sul Rusta,  Monte Peraro alle falde del Venda, Figarile a Teolo, Pomarolis  ad Arquà,, Brombario, a Valle San Giorgio, e altri. 
Braccesi L., Il luccio aponense, “Patavium” 5 (1997), n. 10, p. 119-120, dove si discute del luccio lanoso (Laneus Euganei lupus excipit ora Timavi, / aequoreo dulces cum sale pastus aquas) che alle foci dell’euganeo Timavo vive in ambiente misto di acque dolci e salate e  di cui parla Marziale (13, 89 sg.). 
Bussadori G., Inchiesta alimentare in due Comuni della Provincia di Padova (Autunno 1958 – Estate 1959), Padova 1962. L’inchiesta è riferita al Comune di Due Carrare negli anni ’60 ma è illuminante sul “regime” antico dell’alimentazione anche nei nostri territori. 
Corrain C. – R. Valandro, Aspetti di vita nel territorio tra Adige e Colli Euganei. Documentazione minore tratta da ceramiche e suppellettili d’epoca (XIII – XVIII sec.), Este 1976, che contiene molti riferimenti al cibo. 
Marangon L. — Rambaldi E., Pietro d’Abano filosofo, medico, astrologo 1250-1315, s.l. 2000 (Quaderno dell’IPSSAR Pietro d’Abano). In questo lavoro interesse particolare assumono le pagine dedicate all’alimentazione (p. 50-77) con indicazioni tratte dal suo Conciliator differentiarum philosophorum et praecipue medicorum e da altri scritti del filosofo. 
Baldissin Molli G., Il Poeta e il Marangone. Artigianato padovano al servizio del Petrarca e del letterato umanista, Padova 2004. Una rievocazione dell’artigianato padovano ai tempi del Petrarca che apre una finestra sul vivere quotidiano della Padova Carrarese. Da segnalare inoltre un contributo di Marco Callegari sulla storia delle associazioni di mestiere a Padova in età comunale e carrarese e in appendice una nota sulla “cucina di Francesco Petrarca”.

Cibo e comunicazione

Barbieri G., Il “Cuoco della mente” e la strategia della vita sobria, in Alvise Cornaro e il suo tempo, a cura di L. Puppi, Catalogo della mostra, Padova 1980, p. 150-157. 
Barthes R., Pour une psycho-sociologie de l’alimentation contemporaine, in Pour une histoire de l’alimentation, Recueil de travaux présentés par Jean-Jacques Hémardinquer, Paris 1970 (Cahiers des Annales, 28), p. 307-315. 
Corrain Cl. — Zampini P., Documenti etnografici e folkloristici nei Sinodi Diocesani delle Venezie, Estratto da “Palestra del Clero”, nn. 22-23, 15 novembre e 1 dicembre 1964, Rovigo 1964, riferendo delle grandi quantità di cibo che si portavano per le Rogazioni — evidente reminiscenza di  antichi riti agresti di apertura della stagione; degli usi  di consumare cibo durante le veglie funebri (castagne nel Trentino, vino e formaggio pecorino in Istria); e della qualità di cibo dei morti degli gnocchi — consumati in Friuli da quei campanari che suonavano tutta la notte dei morti – costume che si ritrova anche in molte parti del Veneto. E del costume di  mangiare qualcosa sopra le tombe (pane, vino e minestra di fave, cibo dei morti) per suffragare i defunti e per devozione. 
Fabris A., Venezia sapore d’Oriente, Venezia 1990. 
Giorato S., “Magnaria un bigolo longo da qua al Basanelo, e su ogni cormelo un bicer de vin”. Vino e alimentazione tra lusso, carestia e desiderio, in Id., Pane, ciliegie e vino bianco. Saggi di storia e cultura del vino nei Monti Euganei, Cittadella 2000, p. 107-114. 
Milani M., Tra cibi e cucine del XVI secolo. Notizie e confronti, in Alimentazione è cultura… la cultura previene il cancro: un intervento didattico-educativo promosso dalla Comunità Europea in collaborazione con l’Ufficio studi del Ministero della pubblica istruzione, a cura di I. Marcadella e S. Vallin, Badia Polesine 1995. 
Paccagnella I., Cucina e ideologia alimentare nella Venezia del Rinascimento, in Civiltà della tavola dal Medioevo al Rinascimento, Venezia 1983, p. 37-67. 
Interessante anche il  contributo di Tiziana Plebani sulla storia sociale dell’alimentazione: 
Plebani T., Sapori del Veneto. Note per una storia sociale dell’alimentazione, in Ministero BB.CC.AA. — Ufficio Centrale per i Beni Librari, le Istituzioni culturali e l’editoria, Le cucine della memoria. Testimonianze bibliografiche e iconografiche dei cibi tradizionali italiani nelle Biblioteche Pubbliche Statali, I, Piemonte / Lombardia / Veneto / Friuli Venezia Giulia / Liguria / Emilia Romagna / Toscana, Roma 1995, p. 207-224. 
Rigotti F., La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria, Bologna 1999. 
 
Vale la pena consultare anche opere ormai classiche come: 
Lévi-Strauss C., Il crudo e il cotto, 1966 / Dal miele alle ceneri 1970; Le origini delle buone maniere a tavola, 1971) 
Elias N., La civiltà delle buone maniere, Bologna Mulino 1982. 
Harris Marvin, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Torino, Einaudi, 1990,che basa l’analisi su presupposti non di natura simbolica ma economica e funzionalista. 
Flandrin J.L., Il gusto e la necessità, Milano, Il Saggiatore, 1994. 
Montanari M., Il cibo come linguaggio, presentata al 52° Convegno del Centro italiano di studi sull’alto Medio Evo, Comunicare e significare nell’alto Medioevo, Spoleto, 2004 nei cui Atti sarà pubbblicata.

Cucina veneta in generale

Sulla cucina veneta in generale 
Antica (L’) cucina veneta dal Medioevo al Liberty: una prospettiva storica nata dal focolare,  a cura di A. Barzaghi  – M. R. Nevola, Treviso [2003]. 
Alimentazione (L’) nella tradizione vicentina, a cura del Gruppo di Ricerca sulla Civiltà Rurale, Vicenza 1998, ricchissimo di testimonianze vive su piatti, ricette, nomi, attrezzi, proverbi. 
Azzalin U., Usanze costumi e mangiari di paese, Vicenza 1973. 
Bertolini A., Veneti a tavola. Itinerario gastronomico delle Venezie, Milano 1964. 
Bovolato L., L’arte dei Luganegheri a Venezia tra Seicento e Settecento, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 1998. 
Cavazzana G., Itinerario gastronomico ed enologico d’Italia, Milano 1949. (Della nostra zona cita la soffice focaccia d’Este, le pesche di Monselice e i “segalini” ossia piccoli fichi dolci che si trovano nei Colli. Tra i vini cita il Torralba, il Lispida e il Moscato. 
Coltro D., La cucina tradizionale veneta. Ricette, sapori, aromi noti o dimenticati di una cucina varia e multiforme, dal mangiare rustico dei contadini e delle genti alpine alle specialità marinare dell’alta costa adriatica, Roma 1983. 
Cucina e tradizione nel Veneto. 130 piatti proposti da una ricerca degli Istituti Alberghieri del Veneto, Treviso Fondazione Cassamarca 1996 (2.a ed. 1997). Per la cucina padovana — introdotta da un breve saggio di Nemo Cuoghi (La cucina padovana, p. 71-72) — la presentazione è stata svolta dall’I.P.S.S.A.R. di Abano Terme, a cura del Preside Paolo Rosaspina e dei docenti Emanuela de Saraca, Gian Piero Manca e Sergio Torresin. Son 13 le ricette proposte a rappresentare la tipicità padovana, introdotte da un breve cenno sulla storia del piatto: Bigoli neri, risotto con le rane, risotto ricco alla padovana, sbroeton de verse, tagliatelle con frattaglie di gallo, zuppa “maridada” alla padovana, anatra ripiena arrosta, coniglio alla padovana, faraona al vino rosso, fegato a la sbrodega (in umido), pollo in casseruola, verse sofegae, torta pazientina. 
Cucine, cibi e vini nell’età di Andrea Palladio, a cura di P. Marini, P. Rigoli, A. Dall’Igna con una “Grida” del 1561 contro il lusso dei signori a Vicenza, a cura di F. Bandini, Vicenza 1981. 
 
Contini M., Veneto in bocca, Palermo 1977. 
Crepaldi C. — Rigoni P., Il fuoco, il piatto, la parola. Cultura alimentare e tradizione popolare nel Polesine, Rovigo 1993. 
Da Mosto R.,  Il Veneto in cucina, Milano 1969. 
Dolci e pani del Veneto. Storie e ricette dalla Serenissima alla Mitteleuropa, a cura di G. Rorato, fotografie di C. Bulegato, Venezia 2002. 
Lodisani F., Gastronomia della Valleogra, Schio, s.e., 1969. 
Magliaretta L., Alimentazione, casa, salute in Il Veneto, a cura di S. Lanaro, Torino 1984 (Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi), p. 637-698. 
Marcato G., La cucina povera, in La terra e le attività agricole, a cura di M. CortelazzoPadova s.d. 
Maffioli G., Cucina e vini delle Tre Venezie, Milano 1972.  Qui il noto esperto di gastronomia propone 638 ricette del triveneto. Tra le ricette del padovano sono menzionate i “bigoli” con i vari condimenti, la pasta e fagioli, i “risi e bisi” e tanti altre. Altre opere del Maffioli: 
Maffioli G., Il ghiottone veneto, Milano 1968 e Treviso 19922
Maffioli G., Storia piacevole della gastronomia, Milano 1976. 
Marinoni J., Cucina e salute con le erbe spontanee nelle Tre Venezie, Prefazione di G. Maffioli, Padova 1984 (La cucina regionale). L’atuore, medico e cultore di gastronomia, presenta le erbe con relativa immagine e i nomi dialettali. Dedica un capitolo alle ricette tra cui spicca la zuppa con le ortiche e la salsa di asparagi selvatici. 
Ministero BB.CC.A.A., Le cucine della memoria. Testimonianze bibliografiche e iconografiche dei cibi tradizionali italiani nelle Biblioteche Pubbliche Statali, I, Piemonte / Lombardia / Veneto / Friuli Venezia Giulia / Liguria / Emilia Romagna / Toscana Roma 1995. 
Rizzi F., Cibi tradizionali, in La casa e le tradizioni popolari, a cura di M. Cortelazzo, Vicenza 1998, p. 75-111. 
Rorato G., La cucina di Carlo Goldoni. A tavola nella Venezia del Settecento, Venezia 1992. 
Salvatori De Zuliani M., A  tola co i nostri veci. La cucina veneziana, Milano 19762
Una insostituibile fonte per la storia della gastronomia e per ricostruire il ruolo delle osterie e dei caffè nella vita culturale e sociale dell’800 è il lavoro di Elio Zorzi: 
Zorzi E., Osterie veneziane, Bologna 1928.

Sulla cucina padovana

Tra le opere più recenti dedicate alla cucina padovana segnaliamo: 
Bella (La) tavola (non solo a tavola), Introduzione a cura di G. BarbieriFoto di C. Gerolimetto, Cittadella 1995, che propone le ricette tradizionali del triveneto e per Padova: coniglio all’agro, pasticcio di verza, tortelli di fagiano, zaletti, zuppa di cardi, zuppa di rane, risotto all’anima di baccello. 
Bianco Mengotti G., La cucina padovana, Padova 1967. Pubblicazione edita dall’Ente Provinciale per il Turismo e curata dall’avvocato Bianco Mengotti, membro della delegazione padovana dell’Accademia della cucina. Dopo una introduzione storica sulla cucina padovana, sono proposte 120 ricette tipiche, alcune delle quali di origine antica (“gnocchi alla paduana”, “risi e bisi” — la cui origine viene attribuita a Padova — “poenta e osei”, “fritole”), per elencare i vini tipici e una appendice contenente proverbi e detti gastronomici veneti. 
Campo A., Ricettario di Padova, Colognola ai Colli (VR) 1988. Introduce una scheda generale sulla cucina padovana e sui vini; si divide poi due sezioni in cui si presenta la cucina antica (che rispolvera le ricette di cui si fa cenno dal Cornaro al Ruzante) e la cucina moderna. In particolare segnaliamo la nota relativa al pane padovano. Il pane padovano doveva essere una specialità — pan moro, pan col butiro o col fenocio — se come narra Giovanni Bianco Mengotti, gastronomo, nel 1600 esisteva un gioco dell’oca gastronomico (conservato nella raccolta civica delle stampe della Collezione a Milano) in cui ogni città era rappresentata dalla specialità gastronomica e in corrispondenza della casella di Padova c’era proprio un uomo col pane in mano. 
Capnist G., Tradizioni della cucina pavana, in Padova. Città tra pietre ed acque, Cittadella 2001, p. 419-421. L’autore — accademico della cucina italiana, propone una storia della gastronomia micologica per arrivare ad una vasta raccolta di ricette. Da segnalare la “uova ricche” ricetta dei Colli Euganei servita a Monselice l’11 ottobre 1911. 
Cucina popolare padovana e polesana, testi e ricette di L. Rizzi, Foto di F. Santagiuliana, Padova 1990, edizione fuori commercio prodotta dalla Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo che fa seguito alla raccolta Le ricette della nonna raccolte dal medesimo Istituto  mediante un concorso indetto fra gli alunni delle due ultime classi delle scuole elementari e delle scuole medie delle due province. 
Cuoghi N., Padova da gustare. La tradizione del produrre, del mangiare e del bere, Piazzola sul Brenta (PD) 1999, edito da Padova Promoqualità,  Azienda speciale della Camera di Commercio. 
 
Maffioli G., La cucina padovana dal cinquecento ad oggi, Padova 1981. Qui il noto esperto di gastronomia fa la storia della cucina padovana partendo dal Ruzante e proseguendo con autori come il Cornaro, il tedesco Giegher. Da segnalare il capitolo dedicato alla cucina ebraica che l’autore aveva conosciuto attraverso uno scambio di ricette con il rabbino della sinagoga di Padova. 
Morato V., La cucina padovana, in Ministero BB.CC.AA. — Ufficio Centrale per i Beni Librari, le Istituzioni culturali e l’editoria, Le cucine della memoria. Testimonianze bibliografiche e iconografiche dei cibi tradizionali italiani nelle Biblioteche Pubbliche Statali, I, Piemonte / Lombardia / Veneto / Friuli Venezia Giulia / Liguria / Emilia Romagna / Toscana, Roma 1995, p. 197-198. 
Peri G., Cucina padovana,In “Padova e la sua provincia” n.s. 12 (1966), 4, p. 30-31. 
Provincia di Padova. Assessorato all’Agricoltura, I prodotti tipici della terra padovana, Padova [2003] che contiene la descrizione dei prodotti tipici (con riferimento ai Colli, olte al vino ed all’olio, al miele, alla giuggiola, alla ciliegia ed alla castagna. Il volume propone anche una Raccolta di ricette di cucina tipica padovana reinterpretate da Bianca Rosa Zecchin )del ristorante “La Montanella” di Arquà Petrarca) Giovanni Chimetto, Mimma Ferrazzi Salvan e Giuseppe Ravazzolo (p. 38-119). I testi del volume sono stati elaborati da Renato Ferroli, Sonia Bevilacqua e Giuseppe Ravazzolo.  
Toffanin G., Gastronomia padovana, “Padova e la sua provincia”, 12 (1966), n.s., n. 1, p. 21-22, dove interviene in occasione della presentazione della “Carta Gastronomica del Padovano” curata dall’Accademia della Cucina. 
 
Cucina e tradizione nel Veneto. 130 piatti proposti da una ricerca degli Istituti Alberghieri del Veneto, Treviso Fondazione Cassamarca 1996 (2.a ed. 1997). Per la cucina padovana — introdotta da un breve saggio di Nemo Cuoghi (La cucina padovana, p. 71-72) — la presentazione è stata svolta dall’I.P.S.S.A.R. di Abano Terme, a cura del Preside Paolo Rosaspina e dei docenti Emanuela de Saraca, Gian Piero Manca e Sergio Torresin. Son 13 le ricette proposte a rappresentare la tipicità padovana, introdotte da un breve cenno sulla storia del piatto: Bigoli neri, risotto con le rane, risotto ricco alla padovana, sbroeton de verse, tagliatelle con frattaglie di gallo, zuppa “maridada” alla padovana, anatra ripiena arrosta, coniglio alla padovana, faraona al vino rosso, fegato a la sbrodega (in umido), pollo in casseruola, verse sofegae, torta pazientina. 
 
Metti in tavola i grandi veneti 2004, Vicenza, Edizioni giornalisti veneti associati, 2004, che presenta approcci alla tradizione gastronomica locale nei ricordi di personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport e così, ad esempio, si legge di come il Gemola sedusse Carolina di Monaco. La raccolta propone 100 saggi  che invogliano il lettore a cercare il contatto con quelle persone la cui attività fa tutt’uno con la loro vita, esponendo i loro sogni e la loro famiglia, che dà origine a prodotti che sono il frutto magico di passione e cultura come la polenta arancione di Marano e quella candida, nobile, ottenuta col mais biancoperla. 
 
Maria Rosa Ugento, gastronoma e animatrice della Magistranza della Cucina Euganea, associazione con alle spalle una trentennale attività di valorizzazione della cucina padovana, ha curato un volumetto: Andrea Mantegna alla tavola degli Euganei. Un incontro con la cucina rinascimentale. Contiene un repertorio di ricette originali (un centinaio) risalenti all’epoca del grande artista, nato a Carturo di Piazzola. Pubblicato a cura dell’APPE e della Magistranza della Cucina Euganea, il volume propone una sintesi delle risorse e dei gusti in fatto di cibi in vigore nel XV secolo, proponendo una serie di ricette rispondenti alla gastronomia rinascimentale. 
 
La Saccisica e le sue ricette, Padova 1976, da cui si evince l’universalità di alcuni piatti locali come la gallina lessa o “in tocio”, i “risi e bruscandoli” (piante rampicanti che si trovano lungo i fossi e le siepi), la pasta e fagioli e i “sugoi”, piatto tradizionale preparato con il mosto d’uva. Curato da Enzo Bandelloni, il volume raccoglie — secondo il Maffioli — testimonianze di ricette venete in senso generico senza un collegamento forte con i luoghi. 
Ancora riferito alla Saccisica è un recente lavoro di Antonio Todaro che comunque nella sua ricerca della cucina popolare  scava reperti  che sono di comune tradizione.  Il pregio del lungo capitolo dedicato alla cucina è proprio in questo emergere di ricette popolari frutto di una ricerca avviata negli anni  Sessanta dall’Università di Padova  nella bassa padovana: 
Todaro A., Lettera a una figlia. La Saccisica: storia di uomini e  acque. Con una raccolta di antiche ricette popolari, Padova [2004], p. 122-200. 
 
Recentissimo una ricognizione esaustiva sulla gastronomia padovana a  corredo di una serie di manifestazioni promosse dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova: 
Convivio. Arte e storia della gastronomia e della convivialità nella Provincia di Padova, testi di M. V. Tescione e T. Lucchetti, Battaglia Terme [2004]. 
 
Sulla cucina padovana, segnaliamo anche gli interventi di Maria Vittoria Tescione comparsi sul quotidiano “Il Gazzettino”: 
Tescione M. V., La cucina dietetica, da Alvise Corsaro ai giorni nostri: due esempi del “riciclaggio” del pane, raffermo o grattato, “Il Gazzettino” 25.06.1995; 
Tescione M. V., La pasta di Bartolamio Abbondanza: bigoli menudei e lasagne col grano migliore, “Il Gazzettino” 16.07.1995; 
Tescione M. V., L’accattivante profumo del pane: panebianco e bruno, di avena, di orzo, di segala, di grano saraceno, “Il Gazzettino” 30.07.1995; 
Tescione M.V., Una fetta di melone e il piatto si illumina, “Il Gazzettino” 20.08.1995; 
Tescione M. V., I “torresani” un bocconcino prelibato per palati raffinati, “Il Gazzettino” 17.09.1995; 
Tescione M. V., Suca o baruca, basta sia zucca, “Il Gazzettino” 15.10.1995; 
Tescione M. V., La “smegiazza”, il pan di Natale. Nel secolo scorso nelle pasticcerie c’erano i “Nadalini” da immergere nel vino, “Il Gazzettino” 17.12.1995; 
Tescione M. V., Tavola golosa, secondo tradizione: riaffiorano i ricordi: 24 anni fa nasceva la caffetteria Pedrocchi, “Il Gazzettino” 31.12.1995; 
Tescione M. V., Oca e castagne regali d’autunno: diversi modi per cucinarla, “Il Gazzettino” 5.11.1995; 
Tescione M. V., Nella notte magica dell’Epifania pinza, luganeghe e bissole, “Il Gazzettino” 6.01.1996; 
Tescione M. V., Trionfo di frotile e galani, ma ci sono anche la “dindieta” ripiena e gnocchi dolci, “Il Gazzettino” 28.01.1996. 
Della stessa autrice segnaliamo anche: 
Tescione M. V., Caffè Pedrocchi ospitalità e gastronomia, “Padova e il suo territorio”, 14 (1999), n. 82, p. 23-24.

Testimonianze e memorie

Non potevano mancare molti riferimenti alla cucina nei racconti di Gigi Vasoin — Luigi Vasoin De Prosperi — Accademico della cucina: 
Vasoin G., “a Padova … tanti ani fa”. Avvenimenti, storia, arte, cultura, sport, gastronomia, tradizioni, usanze e costumi nella Padova degli anni ’30 e ’40 in 62 racconti, Padova 1995. 
Vasoin G., “a Padova … tanti ani fa”. Avvenimenti, storia, arte, cultura, gastronomia, sport, tradizioni, usanze e costumi nella Padova degli anni ’30 e ’40 in 65 racconti. Parte seconda, Padova 2001. Molti sono i racconti imperniati sulla gastronomia dei Colli come Toreja, l’abate Barbieri e i “toresani”La Vergine Speronèla e le faraone de Gastaldèlo, Teolo e i ultimi beccafighi, La cusina de casa, El mas-cio e la minestra de risi e verze, Galilei e “il gran bollito alla padovana”
 
Sono ricche di testimonianze sul cibo locale sono le opere di Roberto Valandro: 
Ferrari R. — Valandro R., Perduta terra, Parma 1975 dove si distingue il desinare della famiglia civile (lui era pur sempre il figlio del maestro): minestra, pietanza, contorno, talvolta perfino la frutta, ma sempre in minima dose contro il mangiare rustico (p. 35) che si imitava alla sola minestra con l’eventuale bicchiere di vino (siamo negli anni ’30). E della trattoria sulla strada di Arquà dall’odore di frittura casalinga: scardole e tinche con la polenta (p. 103). Della pesca nel Bisatto e altrove: pesca di tinche, di scardole, di lucci; con la rete, di notte, ma più con la lenza (p. 88) e dove si parla anche della pesca nei fossi visitati dai ragazzi. Essi sbarravano le acque con minuscoli argini trasversali di mota e di sassi. Quindi, riversata l’acqua di quei bacini dentro un fossatello a secco, affondavano le mani nel letto fangoso per sottrarvi il pesce rintanato. 
Nel medesimo libro si racconta anche delle sagre — come quella di San Martino con le brombe  in mano, o quella del Carmine quando ci si accontenta di un pevarino, una pasta piccante. E poi la festa di colori per gli àmoli, o le angurie quando ancora si faceva il tassello per controllare la freschezza e la bontà, o delle zucche che si arrampicavano ovunque, dai vivacissimi fiori gialli che l’ambulante invitava a comprare accompagnandosi al grido di suca barúca
I Bruscàndôi detti anche cime di luppolo, da cui la minestra locale di risi e bruscàndôi. Si coglievano lungo le siepi campestri evitando gli affini germogli di rovo. Passatempo concreto perché, giunti a casa, la mamma li cuoceva col burro: verdura saporitissima d’una usanza dimenticata (p. 89). 
Una memoria sull’olio troviamo nel brano intitolato El pestrin in Valandro R., Incontro con Arquà Petrarca, Conselve 1974, p. 44-47, dove si parla del bravo potatore Emilio Todaro — detto Milio Moreto — e della ganzega che si faceva per Natale dopo che alla raccolta di novembre avevano partecipato in aiuto i vicini e con i quali si festeggiava, appunto, con bigoli in salsa e baccalà, oppure renga, il tutto condito con l’olio di oliva novello. 
Ancora una testimonianza sull’uso antico di nutrirsi con i prodotti del sottobosco troviamo sempre in in Valandro R., Incontro con Arquà Petrarca, Conselve 1974, p. 47-50, dove si parla di una grande raccoglitrice di erbe e di funghi — quell’Anna Maria Ravarotto, Aneta Baioche di nominaja, nomignolo — grande esperta di capelete, famejole, galinele, finfani, deéle, sponsoi ma anche di bruscandoli, rampussoli e scrissioi. La stessa Aneta è anche tra le ultime depositarie dell’antica sapienza per curare con le erbe, come con la crementilia — una radichetta difficile da trovare — o con un decotto di belfiore — erba quasi scomparsa, dai fiorellini gialli. 
Di  Sapore di pane si parla in Valandro R., Per strade antiche, Este 1976, p. 72-75. 
Notazioni sul mangiare tipico dei contadini, sulla sapienzialità dei raccoglitori di erbe spontanee (p. 197), sono anche in: 
Valandro R., Un orizzonte di mediazioni. Colture e culture in Bassa Padovana, in Introduzione storica alla lettura della Carta catastale del “Retratto del Gorzon”. Itinerari e documenti per una storia della Bassa Padovana. Parte I, Stanghella 1986, p. 189-201. 
 
Notazioni sul cibo sono anche: 
Holzer F., Rovolon amore per una terra, Padova 1997, con i brani su L’oca in onto (p. 130-132), El dì del mas-cio (p. 143-146), La graspa fata in casa  (p. 149-151), El pan (p. 185-190), L’arte de fare el butiro e el formajo (p. 204-208), Le sarese (p. 220-221), sul coeghin de l’Assensa ai sofferma El dì de l’Assensa (p. 212-213). 
Scorzon E., Spigolature padovane. Prima serie, Abano Terme 1971, che contiene molte segnalazioni sul cibo (bruscandoli, fave dei morti, pissacani, pevarini, zaletti). 
Zanetti P.G., Terra di barcàri, in Acque in Saccisica e dintorni, Veggiano (PD) 2000, p.185 (alimentazione dei barcaioli); 
Battaglia Terme: un piccolo, grande paese, a cura di F. Marchioro, Battaglia Terme 2004, p. 32-38. 
 
Contiene un sorprendente saggio sulle preferenze alimentari del Petrarca e sulla sua predilezione per la naturalità del cibo e dei luoghi, con molti riferimenti al suo soggiorno euganeo e patavino: 
Camporesi P., Le vie del latte. Dalla Padania alla steppa, Milano Garzanti 2006, (Saggi), con riferimento al capitolo: Il padano Petrarca, p. 51-101. 

La cucina euganea nel ‘900

Nel corso del ‘900 i Colli diventano anche mete gastronomiche. Ecco comparire, dunque, molteplici pubblicazioni che vogliono presentare e caratterizzare la cucina euganea. 
Comisso G., Veneto, in Lo stivale allo spiedo. Viaggio attraverso la cucina italiana, a cura di P. Accolti e G. A. Cibotto, Roma [1965?], che contiene molti riferimenti ai Colli quando tratta dell’area padovana. 
Durante D. — Turato G. F., Guida enogastronomica dei Colli Euganei, Battaglia Terme 1983, anche se di taglio principalmente commerciale. Lo stesso Durante aveva dato alle stampe una raccolta di ricette scritte da Edvige Mioni e Maria Pezzato dell’omonimo albergo di Abano Terme. Il manoscritto culinario era stato ritrovato dal pronipote delle signore e le 106 ricette tipiche venete (con particolare preferenza per i dolci) furono proposte: 
El piron. Antiche ricette culinarie, a cura di D. Durante jr., Abano Terme 1968. 
Fantelli P., Guida ai Colli Euganei, Abano Terme 1983 ( Guide Francisci, 3), con una breve Guida ai piaceri dei Colli Euganei  relativa ai vini ed al cibo (p. 103-111). 
Rigoni Savioli P. P., Pomeriggi da Abano Terme e una nota medica di Ermanno Spadati, Bologna 1975, p. 53-54, dove propone un ricettario euganeo la cui caratteristica prima è data dalla semplicità e dalla delicatezza.
 
Sartori O., Pranzo a Teolo, “Padova e la sua provincia”, 2 (1962), n. 5, p. 50-51, un breve racconto di un pranzo tra ex allievi e un professore guardando dall’albergo alla “rupe selvaggia” piantata da millenni e ricordando gli insegnamenti del professore che tornarono utili nella vita. 
 
Carta gastronomica del Padovano, Padova s.n.t., edito dalla Provincia di Padova — Assessorato al Turismo in collaborazione con le Associazioni di categoria. 
A lieta mensa sui Colli Euganei. Guida enogastronomica con cenni storici, a cura di G. Turato, Consorzio Euganeo Pro Loco, Battaglia Terme 2003. Nel volume edito dal Consorzio Euganeo delle Pro Loco i cenni storici sono curati da Paola Zampieri, mentre le ricette proposte sono il frutto della ricerca condotta dal prof. Corrain, insieme ai professori Marisa Milani e Antonio Todaro. 
 
Nel volume edito dal Consorzio Euganeo delle Pro Loco:  
A lieta mensa sui Colli Euganei. Guida enogastronomica con cenni storici, a cura di G. Turato, Consorzio Euganeo Pro Loco, Battaglia Terme 2003; i cenni storici sono curati da Paola Zampieri, mentre le ricette proposte sono il frutto della ricerca condotta dal prof. Corrain, insieme alla prof.ssa M. Milani e Antonio Todaro. In particolare segnaliamo il contributo dello stesso Turato dal titolo: Note di gastronomia da Ruzante ai nostri giorni, p. 43-46. 
 
Vitalba L. – Franchi C.- Di Piazza P. – Rambaldi E., Andar per erbe sui Colli Euganei. Le erbe in tavola e non solo, Padova Il Basilisco – Centro di ricerche storico – ambientali 2005. Il volume espone il grande patrimonio di conoscenze popolari sulle erbe e le piante. La ricerca capillare è stata condotta dall’Associazione “Il Basilisco” che propone per ogni pianta gli usi gastronomici e i benefici per la salute.

Sul maiale

Uno sguardo al maiale in quanto tradizione italiana si può dare in: 
Mane P., Del maiale tutto è da mangiare, in La cucina e la tavola, Bari 1987, p. 275-282. 
Per l’ambito veneto si veda: 
Corrain C, . Zampin P.L., Costumanze popolari sull’uccisione del porco nel Veneto, in Atti del convegno di studi sul folklore padano — 17-19 marzo 1962, Modena 1963, p. 113-126. 
E se il Tanara pare essere stato il primo a valorizzare e sostenere l’impiego della carne di maiale, nella consistente letteratura sull’argomento troviamo anche episodi letterari come: 
Croce G. C., L’eccellenza e il trionfo del porco, Venezia 1605,  
Frizzi A:, La Salameide. Poemetto giocoso, Venezia 1772 e tante altre scritture del genere dove l’intento non è d’insegnare e d’informare in materia di gastronomia bensì di proporre, stravolgendoli in estrosi “divertimenti” di gusto popolare, i drammatici e incombenti problemi della carestia, della fame della sopravvivenza. Di questa vasta letteratura si occupa Emilio Faccioli in: 
L’eccellenza e il trionfo del porco. Immagini, uso e consumo del maiale dal XII secolo ai nostri giorni, a cura di E. Faccioli, Milano 1982. 
 
Molteplici sono anche le pubblicazioni (ne citeremo solo alcune) che analizzano e studiano il grande impatto che l’animale e le tradizioni ad esso collegate hanno avuto nella cultura locale: 
Maiale (Il) nella tradizione popolare veneta, Padova 1982 (Quaderni del Lombardo Veneto, 1), di particolare rilievo la documentazione fotografica sulle varie fasi del procedimento (a cura di F. Sabbion). 
Sul valore simbolico e sull’esperienza concreta si sofferma: 
Prosdocimi G., Pernumia e l’asino sul campanile, Pernumia 1988, capitolo Il maiale, p. 146-150. 
Otto relazioni (seppur riferite all’area veronese) sul maiale e sul significato che l’animale ha nell’immaginario e nella tradizione sono raccolte in: 
Metamorfosi del suino, a cura di L. Bonuzzi, Comune di Cavaion Veronese 1998. 
Lo stesso autore si occupa anche degli aspetti merceologici, sanitari e culturali di un altro prestigioso insaccato di carni suine, molto in uso anche nei nostri Colli, la soppressa: 
Soppressa asparagi ed oltre, a cura di L. Bonuzzi, Comune di Cavaion Veronese 2002. 
Tra i contributi più recenti: 
Birri F. — Coco C., Sua Maestà il Maiale, Venezia 2003. 
 
Per gli aspetti collegati alla lavorazione delle carni di maiale, patrimonio comune in ambito veneto, si veda: 
Bovolato L., L’arte dei Luganegheri a Venezia tra Seicento e Settecento, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 1998.

Sul mais, la polenta e la denutrizione

Sul “sorgo turco” (mais — la cui prima attestazione documentaria certa pare databile al 1582 a Vighizzolo d’Este) il primo ad occuparsi tra i trattatisti d’agricoltura è il  
Barpo G. B., Le delitie & i frutti dell’agricoltura e della villa, Libri tre, spiegati in particolari, Venezia 1634 (il Ricordo XV è dedicato al mais, che chiama sorgo bianco, del quale narra l’arrivo dall’America e benedice come thesoro del nostro paese, ricchezza della nostra borsa, e vero alimento de nostri bifolchi). 
Ancora  una testimonianza della coltivazione della pianta americana in terra veneta nella prima metà del ‘500 abbiamo in: 
Ramusio G. B., Primo volume, & seconda editione delle navigationi et viaggi in molti luoghi corretta, et ampliata…, In Venetia 1554. 
Sull’argomento si veda, inoltre: 
Fassina M., L’introduzione della coltura del mais nelle campagne venete, “Società e storia”, 15 (1982), p. 31-59. 
Messedaglia L., Notizie storiche sul mais. Una gloria veneta. Saggio di storia agraria, Venezia 1924. 
Messedaglia L., Il mais e la vita rurale italiana. Saggio di storia agraria, Piacenza 1927. 
Ricca di notazioni sull’alimentazione sono anche altre opere dello studioso: 
Messedaglia L., Pietro Martire d’Anghiera e le sue notizie sul mais e su altri prodotti naturali d’America, Venezia 1931. 
Messedaglia L., Agricoltura e alimentazione dei contadini. Storie vecchie e fatti nuovi, Venezia 1926. 
Gasparini D., Polenta e formenton. Il mais nelle campagne venete tra XVI e XX secolo, Sommacampagna (VR) 2002. 
 
Molte annotazioni sul cibo sono anche in altre opere del Messedaglia: 
Messedaglia L., Per la storia dell’agricoltura e dell’alimentazione, Piacenza 1932. 
Messedaglia L., Leggendo la “Cronica” di frate Salimbene da ParmaNote per la storia della vita economica e del costume nel secolo XIII, in “Atti dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, CIII (1943-1944), p.te II, Venezia 1945. 
Messedaglia L., Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, Padova 1979. 
 
Sulla polenta 
La polenta è pianto antichissimo diffuso molto prima dell’avvento del mais. In età antica — era chiamata puls dai Romani, che impastavano una farina di farro cotta nell’acqua e condita con olio o miele – veniva preparata con altri cereali (anche miglio, orzo, sorgo, panico) o anche con farina di castagne e di legumi. Tra i legumi era molto usata nel Veneto la fava. La storia del mais ha conosciuto nel padovano alcuni momenti significativi. 
Adami P. — Bevilacqua Zambusi M. — Boggi Mariacher A., Polenta e…, Cittadella 1999. 
Bernardi U., Reverenti memorie sul signor Pan e la illustrissima Signora Polenta, Venezia 1989. 
Piva B., La polenta, “Padova”, 6 (1932), n. 1, p. 37-38. 
Polenta (La) nel territorio padovano. Brevi cenni storici, Padova 1931, opuscoletto a cura del Segretariato delle Missioni della Diocesi di Padova che celebra il 300° anniversario della comparsa del mais sul mercato granario di Padova fatto risalire al voto fatto nel 1630 per la liberazione dalla peste e che viene fatta coincidere con il 300° anniversario della Madonna della salute, 21 nov. Festa della presentazione di Maria al Tempio. 
Prosdocimi G., Pernumia e l’asino sul campanile, Pernumia 1988, capitolo La polenta, p. 150-154, dove si espone in dettaglio le modalità di preparazione della polenta. 
Sandri A., La polenta nella cucina veneta, Padova 1980, dove dopo aver trattato dell’origine della polenta, del suo valore nutritivo e dei vari modi di preparazione, offre un vasto ricettario proponendo i diversi accoppiamenti stagionali, dal baccalà, all’agnello e capretto, selvaggina e maiale nel periodo invernale. 
 
Sulla denutrizione e la carestia: 
Arrigoni degli Oddi O., La pellagra nella Provincia di Padova, Padova 1883, ricco di annotazioni sull’alimentazione contadina nel padovano con i suoi tristi effetti. 
De Bernardi A., Il mal della rosa. Denutrizione e pellagra nelle campagne italiane fra ‘800 e ‘900, Milano 1984. 
Morpurgo E., Le condizioni materiali della popolazione agricola padovana,,In “Rivista dei lavori dell’I.R. Accademia di scienze, lettere ed arti di Padova”, 9 (1860-1861), 2, p. 89-118, 
Pimbiolo degli Engelfreddi A., Esame intorno le qualità del vitto dei contadini del territorio di Padova, Padova 1783, molto interessante questa fonte settecentesca che esamina i problemi alimentari dell’epoca. Pimbiolo nato a Padova nel 1740 e morto sempre a Padova nel 1824, fu alunno del Seminario, medico, letterato e poeta; nel 1786 fu anche incaricato di provvedere alla riorganizzazione delle terme di Abano e più tardi il governo austriaco lo nominò direttore della facoltà di medicina. Dallo studio emerge la dieta dei contadini a base di polente di mais e orzo, da legumi come fave, lenticchie, da formaggio, sardelle e aringhe affumicate e da minutaglia di pesci, piccoli lucci e anguille, e zucche cucinate in vari modi.

Sulla caccia

L’abbondanza dei boschi faceva dei Colli un vero paradiso per i cacciatori. Della diffusa presenza della lepre ci testimonia il toponimo Val del Lievore così denominata a Baone agli inizi del secolo XIV o il sito indicato col nomignolo dialettale di Caçajivri, cioè “caccialepri”. Talvolta la stessa lepre, assieme al fagiano, alle pernici o ai tordi, era prevista come onoranza nei censi corrisposti dai fittavoli ai padroni dei terreni. La consuetudine di andare a cacciare lepri e altra selvaggina era così diffusa che necessitava di una disciplina apposita, come si vede negli statuti di Este del 1318. 
Sulla caccia — molto diffusa nei Colli — preziosa la testimonianza diretta dell’Abate Felice Dianin (nativo di Teolo) che in un’epistola datata Montemerlo 2 ottobre 1814 e diretta a Girolamo Venanzio (conservata manoscritta nella Biblioteca del Seminario e in parte riportata in De Vivo F., Felice Dianin, illustre figlio di Teolo, “Padova e il suo territorio”, 9 (1994), n. 52, p. 44. 
 
 
Dipingendo il delizioso luogo di villeggiatura nei Colli Euganei, e illustrando il suo modo di vivere con l’intento di lusingare l’amico a seguirlo, sono dedicati alla caccia anche alcuni passi tratti dal poema di Antonio Pochini: 
Pochini A., Galzignano ( stanze), Parma 1805, p. 14.
 
Preziosa testimonianza sull’abbondanza di selvaggina abbiamo anche in una sorta di guida ante litteram dei Colli Euganei del primo ‘600: 
Cittadella A., Descrittione di Padoa e suo territorio con l’inventario Ecclesiastico brevemente fatta l’anno salutifero MDCV, Conselve 1993, il quale parlando di Bastia, che fu Torre, si fa riferimento al bosco del Carpaneo carico di quercie (quasi piciola Hircina), di campi 333 che scolano nella fossa della Nina, e Bandessa, e Bachiglione, per commodità di condurre li legni all’Arsenale di Venezia, e contiene il Vegro lungo copioso di lepri, volpi, lupi, e tal’hora orsi, e cingiali… (p. 117-118). 
 
Recente il contributo di Antonio Mazzetti: 
Mazzetti A., L’inganno dei roccoli, in I Colli Euganei, a cura di F. Selmin, Sommacampagna (VR), Cierre, 2005, p. 73-74; 
 
Sull’argomento si veda anche: 
Zug Tucci H., La caccia da bene comune a privilegio, in Storia d’Italia. Annali, 6, Economia naturale, economia monetaria, Torino 1983, p. 397-445, e specialmente i risultati dell’indagine del Gruppo di Ricerca sulla Civiltà Rurale di Schio che, sulla base di testimonianze orali, ha raccolto notizie sugli strumenti e le tecniche della caccia, sui richiami, gli appostamenti, le trappole, i nomi degli uccelli, le ricette: 
Caccia (La) e gli uccelli nella tradizione vicentina, a cura del Gruppo di Ricerca sulla Civiltà Rurale, Sandrigo (Vicenza) 1996. 
Riferito all’ambito locale un piccolo contributo: 
Ciscato A., Le caccie in Este e nel padovano nel secolo XIV, “Isidoro Alessi. Rivista estense di storia lettere ed arti”, 1 (1895), n. 3, p. 17-18. 
Interessante il saggio di Bartolomeo Cecchetti che espone, a proposito della caccia, il consolidarsi della selvaggina come cibo dei nobili, documentato dai prezzi di vendita più alti anche rispetto a cibi di pregio come lo storione e le bottarghe: 
Cecchetti B., Il vitto dei veneziani nel sec. XIV, “Archivio Veneto”, n.s., 30 (1885), p.te I-II, p. 27-96.

Sul gambero di monte, la pesca e il baccalà

Il gambero di monte era una tipicità della cucina collinare. Ne abbiamo menzione a proposito della Sagra del Venda quando venivano offerti ai membri della confraternita convenuti sul monte per la festa di san Giovanni (la notizia è riportata in Sambin P., Il Monastero Benedettino del Venda prima della Riforma Olivetana, in “Archivio Veneto” (1955), p. 1-25 (p. 22). 
 
L’abbondanza di crostacei nei ruscelli della regione nei tempi andati, costituiva sicuramente una preziosa risorsa alimentare che non mancò di lasciare tracce fin nei proverbi e nella favolistica. Si veda, in merito: Montanari M., Alimentazione e cultura nel Medioevo, Bari 1988, p. 43 e Nardo Cibele A., Zoologia popolare veneta specialmente bellunese. Credenze, leggende e tradizioni varie, Palermo 1887, rist. anast. Bologna 1966, p. 76-77. Si veda anche: Bernardi U., Gamberi e pesce: l’Ultima Cena dell’antico Veneto contadino nell’affresco di San Giorgio a San Polo, “Bell’Italia”, 1 (1986), n. 6, p. 56. Suggestivo anche un altro volume che si propone di stabilire se la presenza di crostacei sulle mense delle Cene si debba all’adesione ad un codice simbolico dei frescanti oppure all’intento di rappresentare un particolare realistico, dato che i gamberi hanno costituito nel corso dei secoli “un sussidio abbondante ed apprezzato nelle lunghe stagioni della fame contadina”: 
Viello M., Le ultime Cene con gamberi in affreschi tardogotici del Feltrino, del Trevigiano e del Trentino: problemi iconografici, “Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di Scienze morali, Lettere ed Arti, 107 (1994-95), p.te III, p. 149-172. 
 
Poco frequenti sono comunque le testimonianze riferite al consumo di pesce ed alla pesca, anche se la pratica doveva essere diffusa. Riportiamo a mo’ di esempio, questa testimonianza di Giuseppe Gennari riferita al lago di Arquà. 
Gennari G., Informazione istorica della città di Padova, Bassano 1796, p. cxxvii: 
La fertilità poi del mentovato Territorio corrisponde alla sua grandezza …(tra i laghi) il lago d’Arquà, notabile per le sardelle, e pei cefali che vi si pescano. E’ abbondante di frumento, e di ogni qualità di biade, e di vini squisiti, non meno nel piano, che nelle colline, delle quali ancora prezioso olio, e saporitissimi frutti si hanno .. Nè luoghi opportuni alkle caccie ed uccellagioni ci mancano … 
Ancora sul lago d’Arquà, una testimonianza del 1605: 
… vi è il Lago picciolo a basso delle Colline… è senza fondo maravigliosamente da compararsi alla pescaria di Lucullo, poichè fra li diversi, buoni, e rari pesci vi si trovano tra li dolci anco delli salati… (Cittadella A., Descrittione di Padoa e suo territorio con l’inventario Ecclesiastico brevemente fatta l’anno salutifero MDCV, Conselve 1993, p. 131). Qualche anno più tardi , il Portenari ricorda ancora le molte paludi (li paesani li chiamano valli) nelle quali come in luoghi bassi si congragavano l’aque delle pioggie, le inondazioni delli fiumi, e altre acque di picciole fontane, che nei colli scaturiscono. Queste paludi avevano pesce in tanta copia, che sarebbe stata bastevole ad un regno, sicché il pesce si vendeva a vilissimo prezzo…, vedi: Portenari A., Della Felicità di Padova, Padova 1623 (rist. anast. 1973), p. 54. E’ del 1797, invece, una ulteriore testimonianza di  Zaborra G. B., Petrarca in Arquà Dissertazione storico-scientifica di Gio: Battista Zabborra figlio di Paolo scritta nell’anno 1797, Padova 1797, il quale menziona … che nel lago vivono sardelle, e cefali (al dir dell’Orsato), pesce in qualunque altro lago, fiume, o palude d’acqua dolce affatto sconosciuto. Di più, ch’egli comprende in se pesci d’un gusto squisitissimo, e fra questi aver il primo luogo tinche, ed i lucci, che vi si pescano abbondantemente (p. lxiv). 
All’argomento della pesca nella valli si è interessato di recente nella sua tesi di laurea: 
Bottaro F., Pesca di valle e commercio ittico tra Padova e Monselice nel Quattrocento, tesi di laurea, Università di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2000-2001. 
In ambito locale gli unici cenni sull’argomento si devono a Camillo Corrain per alcuni aspetti della pesca nelle valli di Pozzonovo e ad Alfredo Pino-Branca per ciò che attiene il commercio a Padova: 
Corrain Ca., Localizzazione degli antichi toponimi, in Territorio e popolamento in Bassa Padovana, Stanghella (PD) 1984 (Quaderni del Gruppo Bassa Padovana, 6), p. 163-248. 
Corrain Ca., Modificazioni del territorio tra Pozzonovo, Solesino e Stanghella: fatti e confini, in Introduzione storica alla lettura dela carta catastale del “Retratto del Gorzon”, Stanghella (PD) 1986 (Quaderni del Gruppo Bassa Padovana, 7, I), p. 93-157. 
Corrain Ca., Il “Retratto del Gorzon” nella cartografia storica tra medioevo ed età venezian, in Il “Retratto del Gorzon” nella cartografia storica tra medioevo ed età veneziana, Stranghella (PD) 1988 (Quaderni del Gruppo Bassa Padovana, 7, II), p. 7-235. 
Corrain Ca., Considerazioni sull’evoluzione del territorio nel medioevo e su alcuni aspetti del rapporto uomo-ambiente nel vivere quotidiano degli abitanti di valli, in Monselice. Storia, cultura e arte di un centro “minore” del Veneto,  a cura di A. Rigon, Monselice 1994, p. 65-79. 
Pino-Branca A., Il comune di Padova sotto la Dominante nel secolo XV. (La politica economica di Venezia nel comune padovano), “Atti del reale istituto veneto di scienze lettere ed arti”, 93 (1933-34), p. 325-390, 1249-1323; 96 (1936-37), p. 739-774; 97 (1937-38), p. 71-100. 
 
Di taglio più generale: 
Catoni G., “Super facto piscium” (Siena (1291-1486),  in Scrivere il medioevo: lo spazio, la sanità, il cibo. Un libro dedicato ad Odile Redon, a cura di B. Laurioux — L. Moulinier-Brogi, Roma 2001, p. 295-303, dove si dimostra come la pesca in laghi e fiumi d’acqua dolce ricopra un ruolo fondamentale nell’economia cittadina italiana. 
Fabris A., Valle Figheri. Storia di una valle salsa da pesca della laguna veneta, Venezia 1991. 
Mira G., La pesca nel medioevo nelle acque interne italiane, Milano 1937,  ancor oggi una delle ricerche storiche più complete sulla pesca nel Medioevo nelle acque interne italiane. 
Pini A. I., Pesce, pescivendoli e mercanti di pesce in Bologna medioevale, “Il Carrobbio”, 1 (1975), p. 329-349. 
Vallerani F., Il villaggio di pescatori di punta Sdobba (foce dell’Isonzo), “Quaderni di scienze antropologiche”, 3 (1979), p. 174-201. 
Vallerani F., Evoluzione del paesaggio lagunare e la pesca: il caso di valle Millecampi, in L’uomo e il fiume. Le aste fluviali e l’uomo nei paesi del Mediterraneo e del mar Nero, “Atti delle giornate internazionali di studio “L’uomo e il fiume”, a cura di R. H. Rainero — E. Bevilacqua — S. Violante, Settimo Milanese 1989, p. 95-104. 
 
Sul baccalà si veda: 
Birri F. — Cocco C., Nel segno del baccalà. Dai mari del Nord alla tavola italiana: curiosità, storia e ricette di un piatto tipico e tradizionale, Venezia 1997. Gli autori osservano come il nome stoccafisso derivi dall’antico olandese stock (bastone) e visch (pesce), ossia “pesce seccato sui bastoni”. Tra le ipotesi vagliate sull’etimologia di “baccalà”, è interessante la possibile derivazione dal latino baculus (bastone) che presenta così  analogie con l’origine dell’altro termine “stoccafisso”. 
Kurlansky M., Il merluzzo: storia del pesce che ha cambiato il mondo, Milano 1999. 
Stoccafisso e baccalà nel piatto. Interpretazioni della tradizione veneta, Cornuda 2001con interventi di U. Bernardi (Nel paradiso del baccalà, p. 7-11) e di G. Rorato (Il baccalà gloria della cucina veneta, p. 13-23). 
Si veda anche il pometto in ottave di Luigi Plet, professore di canto sacro alla Basilica di San Marco: 
Plet L., El Bacalà, in Versi da lui corretti e dati in luce di nuovo, per poter sostenere la sua gratuita scuola di canto, Venezia, Tip. P. Naratovich, 1857, p. 49-64.

Gli gnocchi e la patata

Sugli gnocchi piatto tradizionale di grande impatto nell’immaginario si veda: 
Giorato S., “Il gnocco di Teolo”. Ricette e storie di un piatto antico, Comune di Teolo – Pro Loco 2001, dove si ipotizza una origine padovana della versione del piatto che usa nell’impasto le patate anziché la farina come nella ricetta rinascimentale. Una sintesi della ricerca è comparsa con il titolo Sull’origine padovana del “macaron” in “Padova e il suo territorio”, 17 (2002), n. 99, p. 11-15. Secondo il linguista Gianmarco Cardillo il termine “gnocco” è di area veneta e potrebbe risalire alla dominazione longobarda, cui appartine il termine “knohha” che significa “nocca, nodo”: da qui l’antica denominazione riferita pare alla forma irregolare del nodo degli alberi. 
Sul fatto che questi gnocchetti o bocconi impastati con farina di cereali macinati in modo grossolano con macine di pietra fin dall’età del bronzo, si occupa: 
Corrain Cl. — Zampieri P., Considerazioni sopra un’antica vivanda, “Lares”, 30 (1964), fasc. 3-4, p. 139-143. 
Vale la lettura una gustosa rappresentazione:Peruffi G., Origo Gnoccorum, in Peruffi G., Gnoccheides, Verona 1839. Traduzione di Marino Zampieri, in M. Zampieri – A. Camarda, Sotto il segno dei Maccheroni. Rito e poesia nel Carnevale veronese, Cierre, Verona 1990, p. 80-83. Testo riportato anche in M. Montanari, Convivio oggi. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’età contemporanea, Roma-Bari 1992, p. 45-47. 
Una raccolta di documenti ufficiali e relazioni storiche sull’origine della festa degni gnocchi a Verona abbiamo in: 
Torri A., Cenni intorno all’origine, e descrizione della festa che annualmente si celebra in Verona l’ultimo venerdì del carnovale comunemente denominata Gnoccolare, Verona 1818. 
 
Sulla patata e sul suo impiego per uso alimentare si veda: 
Arduino L., Istruzione sopra la coltura e gli usi economici delle patate scritta dal professore Luigi Arduino e pubblicata per ordine della I.R. Prefettura Provvisoria del Brenta, Nella Tipografia Penada s.d., ma pubblicata prima del 1815. 
Panjek G., In margine alla storia dell’alimentazione: un dibattito settecentesco  sull’introduzione della patata nel Veneto, in Raccolta di scritti per il cinquantesimo anniversario, 1924-1974, Udine 1976, p. 573-578. 
Già da tempo un mercante friulano, Antonio Zanon, si prodigava per l’istituzione di accademie agrarie finalizzate a sensibilizzare i proprietari nella cultura agronomica e per istruire i contadini. Fu lui, sensibile al profondo malessere della sua terra a farsi suggeritore di interventi concreti e segnalare, ad esempio, le potenzialità della patata per l’uso alimentare: 
Zanon A., Della coltivazione e dell’uso delle patate e d’altre piante commestibili, Venezia 1767. Un breve profilo su di lui e sul ruolo rivestito nel dibattito agronomico si trova in: 
Bano D., La riflessione economica: dai problemi dell’agricoltura e della moneta all’economia come un tutto, in Storia della cultura veneta. Il Settecento, 5/II,  Vicenza 1986, p. 411-434.

Sugli alberi da frutto e il castagno

Tipici dell’ambiente collinare sono anche i molteplici alberi da frutto. Essi Fan parte del paesaggio collinare sin dai tempi più antichi, quando, frammisti ai vigneti, integravano la povera economia, consentendo lo smercio delle primizie. Si cominciava in primavera con le ciliegie, le biancoline e poi con le marinele, le asprigne amarene. In giugno eran pronti gli àmoli del Santo, di sant’Antonio, e i pereti de san Piero, i pomi sanpieroi e gli armellini. Per la Festa dell’Assunta eran pronti i fichi: i madonati, maturi per la ricorrenza mariana, i sucoi a forma di zucchine e quei figalini raccolti per preparare quelle lunghe “corone” seccate al sole e intrecciate con filo di canapa. E mentre si raccoglievano le mandorle, settembre portava le zìzole, le giuggiole, e i pomi ingranà, i melograni dai rossi chicchi. Intanto si faceva l’uva da tavola, la garganega, e poi l’uva d’oro e le prugne, le bronbe bianche nere piccole e grosse, cui s’aggiungevano noci e nocciole. Ottobre offriva, oltre al vino, i pometi lazarini, le mele cotogne usate per profumar le lenzuola e per fare il vin brulé. Ultime arrivavano le sòrbole e le nespole o corbei: simili a piccole pere le sòrbole, coperte di paglia come le nespole, si disacerbavano all’inizio di novembre.É una tipicità assolutamente unica dei Colli Euganei l’associazione delle colture primarie di vite ed olivo con il mandorlo, il fico, il giuggiolo e il melograno. Questi prodotti minori – la cui crisi ha cominciato a farsi sentire dagli anni ‘60 con l’ampliamento della rete commerciale e della distribuzione – possono ancor oggi costituire una specificità del territorio ed una voce economica di rilievo. 
 
Tipica è anche la coltivazione del castagno della cui tradizione ci conferma Plinio il Vecchio (Storia naturale, xxxi, 3) il quale ricorda come l’introduzione del castagno finisse per sostituire quasi completamente il faggio, facendosi preferire per il frutto e per il legno. Il castagno fu introdotto nei Colli dagli stessi Romani quale coltura arborea più utile e redditizia, e attecchì così bene che Plinio riferisce di un certo Corellio, cavaliere romano nato a Este e trasferito a Napoli, dove ottenne, mediante un innesto con un germoglio portato dalla sua terra, una qualità prelibata di castagne che poi fu detta corelliana. E se qualche etimologia bonaria fa derivare Montericco da riccio per l’abbondanza dei castagni, è invece documentata una notorietà delle castagne saporite e grosse — detti maroni — prodotti in gran quantità a Calaone. Per gli abitanti dei Colli il frutto ha costituito un riferimento importante. Nell’alimentazione, innanzitutto: ce ne dà una testimonianza l’abate Barbieri che all’inizio dell’800 nel suo rifugio di Torreglia descrive i popolani intenti a mangiare le «molli castagne» nelle lunghe serate d’inverno, «quando assisi al cantuccio de’ lor focolari, bevono a josa, e contano favole». Connotando il paesaggio come nel caso del castegnaròn di Carbonara o quello di Castelnuovo – subito dopo le curve di Schivanoia — e segnando la memoria nei toponimi come nella castagnàra del sènto a Valnogaredo sotto la cui ombra i vecchi si fermavano a chiacchierare durante la salita. Oggi la tradizione è mantenuta viva nella sagra dei maroni che si celebra a Teolo la terza domenica di ottobre, quando abilissimi caldarrostai lanciano a raggiera verso l’alto castagne abbrustolite a fuoco vivo che ricadono nella padella bucherellata (quello stesso arnese indispensabile, cui fa cenno il Platina), per abbronzarsi fino a completa cottura. I maroni sono i frutti — meno numerosi ma più grossi e gustosi — dati dalla pianta che ha ricevuto l’innesto migliorativo. Con le castagne si facevano polente, pane, torte, biscotti, minestre ed un tipico dolce autunnale, il castagnaccio (farina di castagne, zucchero, uva passa, pinoli, olio d’oliva). Sull’argomento si veda: 
Mazzetti A., Maronàri e maronarìe,in I Colli Euganei, a cura di F. Selmin, Sommacampagna (VR) Cierre, 2005, p. 75-78; 
 
Sensibile a questo fatto storico e colturale – si consideri che un censimento realizzato di recente ha rilevato nei Colli circa 2.400 piante, per una superficie complessiva di quasi 34 ettari – il Parco Colli ha messo a punto un «progetto Castagno» che si propone di rilanciare e promuovere la castanicoltura da frutto nei Colli e di salvare dall’estinzione i biotipi autoctoni. Dell’argomento si occupa: 
Moretti R. — Pasqualin A., ll castagno da frutto nei Colli Euganei. Silsab 2001.

Sui volatili da cortile e la gallina

Sul tema dell’allevamento dei volatili da cortile, si veda: 
Molin R., Sull’allevamento dei volatili domestici, “Il Raccoglitore. Giornale della Società d’Incoraggiamento di Padova, s. II, 1 (1863-64), n. 10, p. 172-175,  p.te II, n. 11, p. 185-191; p.te III, n.12 p. 205-211; p.te IV, n. 16, p. 272; p.te V, n. 17, p. 301-306; p.te VI, n. 19, p. 330-333; p.te VII, n. 20, p. 349-353, che tratta anche della gallina padovana. 
Levi Cattelan A., Importanza della pollicoltura, “Il Raccoglitore. Giornale agrario padovano”, 2 (1879), n. 20/21, p. 327-329, con istruzioni dettagliate per l’allevamento e la nutrizione dei polli. 
Mazzon I., Pollicoltura padovana, “Padova”, 6(1932), n. 10, con un capitolletto su La Pollicoltura ai Colli Euganei, p. 28-32.  
Mazzon I., Pollicoltura padovana. Storia monografica delle razze padovane, Padova 1934. 
Non si può tralasciare, nell’ambito della pollicoltura, il tema della gallina padovana, menzionata anche dal Platina che apre il suo capitolo sull’argomento ricordando il pollame di razza molto grossa, come quella padovana. Secondo Nemo Cuoghi il merito della apparizione di tale razza di pollame spetterebbe a Dondi dell’Orologio, il costruttore del Planetario di Piazza dei Signori, che avrebbe importato e incrociato, con il pollame locale, un tipo di gallina dal grande ciuffo, dalla Polonia. Da allora il piumaggio si è ridotto, la taglia dei volatili si è modificata, ma la fama della «padovana» rimane, anche se dal capoluogo si è passati in provincia, a Polverara, come testimoniano due contributi — uno ottocentesco e l’altro più recente: 
Peterlin A., La gallina di Polverara, “Il Raccoglitore.”, 8 (1885), n. 18, p. 286-288; 323. 
Fracanzani C. L., Il Pollaio provinciale  e l’Osservatorio avicolo “Ugo Meloni” con scheda La gallina padovana in Zanetti P.G. (a cura di), L’agricoltura veneta dalla tradizione alla sperimentazione attraverso le scuole e le istituzioni agrarie padovane, Padova 1996, p. 199-205. 
De Checchi F., La gallina di razza “Polverara”, prodotto tradizionale del padovano, “Padova e il suo territorio”, 18 (2003), n. 104, p. 40-43. 
[Pro Loco Polverara], Gallina Polverara tra storia e tradizioni, S.n.t., prezioso volume edito in collaborazione con il Comune di Polverara e l’Associazione “GAllina Polverara” comprende contributi di G. Dal Pra, A. Chinello, C. L. Fracanzani, P. V. Fracanzani, F. De Checchi, P. Tieto, S. Rampin, I. Pinton.
 

Altri prodotti locali

Sui prodotti locali, si veda: 
Lagaresi G., Il prosciutto euganeo-berico, “Padova e la sua provincia”, 23 (1977), n.s., n. 2, p. 29-30. 
Toffanin G. jr., Le pecore padovane, “Padova e la sua provincia”, 23 (1977), n.s., n. 1, p. 9-13. 
Zanaldi L., Divagazioni sulla giuggiola, “Padova e la sua provincia”, 29 (1983), n. 1, p. 33-34. 
Zanaldi L., Divagazioni sul tacchino, “Padova e la sua provincia”, 29 (1983), n. 7/8, p. 19-23. 
 
Le storie dell’alimentazione concordano nel dire che il pheseolus conosciuto dal mondo antico, prima della scoperta dell’America, era il dolico, ossia il minuscolo, bianco fagiolo dall’occhio. Sul fagiolo si veda: 
Perale M., Milacis cultus aperire paramus. “De milacis cultura” di Pietro Valeriano. Il primo testo europeo dedicato al fagiolo, Belluno s.d., dove si presenta il poema di 756 esametri dedicati alla coltivazione del fagiolo opera del bellunese Giovan Pietro Bolzanino delle Fosse, umanista vissuto tra il 1447 e il 1558 e morto a Padova e noto con pseudonimo di Pietro Valeriano. In Appendice il testo è tradotto. L’autore, datando l’opera tra il 1533 e il 1534, ricorda che in Europa era già presente un tipo di fagiolo proveniente dall’Asia e ricordato dallo stesso Virgilio (Georgiche I, 227) come vile phaselum, un piccolo foraggio destinato all’alimentazione animale che sarà soppiantato dal più saporito e nobile prodotto americano. 
 
Dai Luxardo, famiglia genovese trasferitasi in Dalmazia sin dal 1820, e dalla Dalmazia insediatisi a Torreglia dopo che un bombardamento aveva distrutto la fabbrica di Zara, dove diedero vita alla cultura specializzata delle marasche: 
Luxardo De Franchi N., Considerazioni sulle marasche, Venezia 1962, un opuscolo che tratta della lavorazione di quella varietà di ciliegia dal sapore dolce-acidulo da cui si ricava il maraschino. Lo stesso autore scrisse una storia del maraschino: 
Luxardo De Franchi N., Storia del maraschino, Torreglia 1988. 
 
Sulla grande diffusione del riso sin dal ‘500 si ha testimonianza da alcune Parti, cioè disposizioni normative emanate dalla Repubblica di Venezia. La sua diffusione locale sembra si possa datare al 1475 — epoca a cui risale la famosa lettera in data 27 settembre — con cui Gian Galeazzo Sforza regalerà al Duca di Ferrara dodici sacchi di riso da semina, dando origine alle coltivazioni nella zona.  L’espansione nella Valle Padana fu, secondo Messedaglia, piuttosto lenta. Risalgono al 1481 i primi tentativi nel Mantovano; al 1522 a Palù, nel Veronese. Solo sul finire del Cinquecento, appunto, il riso si sarebbe venduto a basso prezzo. Di origine orientale, il cereale giunse in Europa attraverso la mediazione araba e la sua presenza più significativa nei ricettari trecenteschi è rappresentata dal bianco mangiare, pietanza considerata rigenerativa, confezionata con tutti ingredienti bianchi, all’epoca reputati molto nutrienti e terapeutici, ossia zucchero, latte, carne di pollo, mandorle e riso, appunto. Venduto nelle spezierie e usato con grande parsimonia in cucina, il riso conoscerà più tardi una grande diffusione tale da collocarlo tra gli alimenti più popolari. 
Parte presa nell’illustrissimo collegio dele Biave: adì 8. Luglio 1592. In materia di quelli che comprano, & vendano Risi, [Venezia] s.d. [1592],dalla quale si evince l’uso comune del riso anche tra il povero popolo
Della Regolation delle risare: et della prohibition di metter a semina di Risi niuna sorte di terreni, buoni per seminarui Formenti. Parti dell’Eccellentiss. Senato di 17. Settembre 1594. & di 15. Luglio 1595, [Venezia] s.d. [1595], che attesta i problemi derivanti dall’eccessiva estensione delle coltivazioni di riso. 
Una storia del riso, delle sue qualità, delle vicende della sua introduzione nello stato veneto e sugli usi gastronomici, si sofferma Antonio de Torres: 
Torres, A. de, Trattato storico ed economico della natura, spezie, pregi paesi di origine, e di propagazione usi fatti, e che far si possono del riso…, In Venezia 1793. 
 
Prodotto dal Parco Regionale dei Colli Euganei con l’Associazione Produttori Apistici della Provincia di Padova A.P.A. Pad. nell’ambito delle iniziative comunitarie Leader 1, questo essenziale riepilogo sull’apicoltura curata dal decano Angelo Irsara, veterinario da sempre dedito alla valorizzazione del prodotto: 
Irsara A., Il miele di qualità del Parco Regionale dei Colli Euganei — IGP Provincia di Padova, Arquà P., Parco Regionale dei Colli Euganei, [1996].
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