La vite si espande nell’Alto Medioevo con il diffondersi del Cristianesimo
La vite si espande in Europa con il diffondersi del cristianesimo e travalica anche i suoi confini climatici per consentire agli insediamenti monastici di svolgere i riti liturgici che necessitano del vino. Un Diploma di Carlo Magno esprime l’elogio di un grande abate scrivendo a titolo di massima lode: fecit ecclesia(m) et plantavit vineas.
Per l’Alto Medioevo – cioè il periodo che va dalla caduta dell’Impero romano all’anno Mille – le notizie sono molto scarse. Del regresso culturale ed economico troviamo testimonianza nei toponimi che indicano selvatichezza (come Lupuianum, Frassenella, Gazzo, Selva, Selvatico, Selvazzano, Villa del Bosco), e terreni paludosi (come Palù, Tencarola, Val Nogaredo, Val S. Zibio, Vò).
Andrea Gloria – storico padovano dell’800 – riporta una notizia che pone tra il IX e il X secolo le prime testimonianze medievali della viticoltura sugli Euganei, specie sui monti di Arquà, Zovon, Luvigliano, Rovolon e, specialmente, nel Montericco che allora si denominava Montevignalesco o Monte delle vigne, alle cui falde si estendevano paludi.
La sacralità della vigna – chiusa in recinti protetti da muretti a secco o da alte siepi per essere difesa dalle ingiurie degli uomini e degli animali – emerge anche nel linguaggio, tanto che il campo semantico di “vinea” si allargò ad includere qualsiasi spazio delimitato racchiudente in sè una coltura specializzata, fosse o meno quella viticola. Così possiamo dire che la vite ha una doppia sacralità: per essere l’origine del vino, che nel rito eucaristico diviene il sangue di Cristo e per essere un oggetto speciale del lavoro umano, che tanta cura e dedizione richiede.
fecit ecclesia(m) et plantavit vineas: Imberciadori I., Vite e vigna nell’Alto Medio Evo, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’alto Medioevo, Spoleto 1966, p. 313.
Andrea Gloria: Gloria A., Della agricoltura nel Padovano Leggi e Cenni storici, in Scritti raccolti e pubblicati dalla Società d’incoraggiamento per la Provincia di Padova, Vol. II, Parte I, Padova 1855, p. CXX.
viticola: Pini A.I., Vite e olivo nell’Alto medioevo, in “L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo”, I, Settimane di Studio XXXVII, Spoleto 1990, p. 350.
Il Pedevenda medievale
Intorno al 1200 Padova si presentava come un agglomerato di 10, forse 15 mila abitanti (Bortolami 1985, p. 83). Circa un secolo più tardi ne avrebbe contato 30-35 mila. La crescita vertiginosa della città porta all’imporsi di nuovi ceti sociali e rende conto anche dell’aumentata importanza della produzione vinaria.
Lentamente, a fianco della viticoltura ecclesiastica, se ne impone anche una signorile. Il cronista padovano del Trecento, Giovanni Da Nono, data all’anno 1184 l’introduzione della vite nei monti Euganei da parte del nobile Alberto da Baone, il quale avendo navigato in Slavonia, al suo ritorno portò con sé viti sclavas.
Si può presumere che il generale fenomeno di diffusione del vigneto basso in coltura specializzata nelle soleggiate esposizioni collinari, contrapposto alla coltura promiscua delle viti alberate in pianura, abbia preso piede anche nella regione euganea. Anzi, una possibile interpretazione del termine sta ad indicare il tipo di coltivazione su supporti bassi morti, più facilmente lavorabili in collina, potate e legate, cioè sclavis per distinguerle dalle majoribus, cioè dalle viti che si sostenevano ed arrampicavano sugli alberi.
Il contado padovano era diviso in due zone: pianura e Pedevenda. Il rilievo della produzione vinaria dei Colli è testimoniato dall’adozione dell’unità di misura standard per il vino dell’epoca: la “concola di Pedevenda”, corrispondente a circa 30 litri.
La classificazione medievale dei vini si basa sull’età, sul colore (Bartolomeo Anglico distingue tra bianco, nero, glauco, rosato), il sapore (dolce, mordente, acuto), la forza o vinosità (che è determinata dal grado alcolico); importante è anche l’origine e poter scegliere vini “esotici” è un segno di distinzione sociale.
15 mila abitanti: Bortolami S., Fra “Alte Domus” e “Populares Homines”: il Comune di Padova e il suo sviluppo prima di Ezzelino, in Storia e Cultura a Padova nell’età di Sant’Antonio, Convegno internazionale di studi 1-4 ottobre 1981 Padova-Monselice, Padova 1985, p. 83.
un secolo più tardi: Hyde J. K., Padova nell’età di Dante. Storia di una Città-Stato italiana, Trieste 1985, p. 49.
nella regione euganea: Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1984, p.82.
Il privilegio sociale del sapor dolce
La vicenda dell’importazione di vitigni transmarini si deve leggere nell’ambito della storia dei costumi sociali e, in particolare, nelle vicende che sottendono ai meccanismi della formazione del gusto, incentrati sulla rarità e non sull’abbondanza dei prodotti. L’accesso al sapor dolce resta alla portata di pochi e viene percepito come un privilegio di classe. Ne abbiamo testimonianza nel celebre elogio del Vinum dulce et gloriosum del Maestro Morando che insegnava Grammatica a Padova nel secolo XIII. Non abbiamo certezza che l’elogio contenesse un riferimento esplicito al vino prodotto nei Monti Euganei. Certamente la composizione – che troviamo riportata nella Cronica di fra’ Salimbene de Adam da Parma – è una testimonianza chiara sulla valenza sociale dell’accesso al sapor dolce quando nobili, e poi anche borghesi, si facevano vanto di accaparrarsi vini ricercati e di qualità.
Mentre il popolo si accontenta dei vini locali, asprigni (sed acerbum linguas mordet, scrive lo stesso Morando) e facili all’inacidimento, detti “vini latini”, l’élite della società bassomedievale cerca di importare dall’Oriente questi vini preziosi, e tra questi quelli dolci erano certamente tra i più ricercati.
Sulla base di questa storia dell’immaginario medievale e sulla base di una recente ipotesi formulata da Angelo Costacurta, docente di viticoltura all’Università di Padova, cioè di una derivazione del Moscato bianco dal Moscato giallo (Sirio o Armeno) si può anche supporre che, nell’ambito della sua grande rete commerciale, la Repubblica di Venezia abbia potuto importare direttamente dall’area mediorientale questo pregiato vitigno.
Il vino e la dietetica
Nelle prescrizioni medievali salute e alimentazione sono integrati. Il diffondersi dei Tacuina sanitatis (tavole della salute) fornisce per ogni elemento una carta d’identità in cui sono dettagliate natura e caratteristiche, affinché l’uomo possa farne buon uso.
Le funzioni dietetiche del vino sono molteplici: il vino nutre; fortifica e ricostituisce il “calore naturale” del corpo, essenziale per la vita, la crescita e la digestione. Il vino fa buon sangue: il legame tra sangue e vino è considerato tanto più forte dal momento che secondo la teorie mediche, il vino una volta bevuto, circolava direttamente nelle vene. Il vino è antisettico e veniva usato per disinfettare le piaghe e per purificare l’acqua. S’impiegava anche per scopi farmaceutici ed era il primo componente, insieme al veleno di vipera, della triaca, un antidoto di antichissima origine in grado di ricreare il calore naturale e di accrescere la resistenza alla fatica e alle malattie.
Nella prima età moderna si pensava che il gusto agisse come un istinto che ci porta naturalmente verso ciò che è buono, che fosse la costituzione individuale a dettare i gusti e che l’equilibrio umorale di una persona reclami alimenti di questa o quella natura. Il Platina, autore del De honesta voluptate et valetudine (uno dei trattati di gastronomia più noti del XV secolo), si proponeva di conciliare piacere gastronomico e dietetica confermando questa corrispondenza tra piacere gustativo e benessere corporale.
Per la sua evidenza e sua semplicità, questa filosofia di vita si andava diffondendo anche nelle classi popolari, così il contadino Ruzante – personaggio creato da Angelo Beolco (ca. 1496-1542) – rivolgendosi al vescovo che si stava insediando nella diocesi di Padova nell’estate del 1521, lo invitava a non considerare la golosità come un peccato, perché i medici dicono che quel che piace fa buon pro, e facendo buon pro fa salute.