Scarse le rappresentazioni dei Colli nelle epoche più remote. Non sembra un profilo collinare lo sfondo della tavola Madonna col Bambino di Cima da Conegliano (1504) – prima custodita nella Chiesa di Santa Maria delle Consolazioni detta “degli Zoccoli” e oggi nel museo cittadino estense. Più riconoscibile la forma conica del Monte Cero e del Monte Castello nella pala del Tiepolo che celebra il miracolo di Santa Tecla che libera la città di Este dalla peste.
Un’altra citazione illustre abbiamo nel Martirio di San Giacomo – conservato nella Chiesa degli Eremitani in Padova – dove il Mantegna appare ispirato nella composizione del paesaggio – secondo Emilio Sereni – ai modelli che gli si offrivano nei Monti Euganei e rappresenta i campi inerpicati sulle pendici adattarsi all’andamento del suolo, ed i filari delle piantagioni disporsi a cavaliere del colle, sistemazione detta a cavalcapoggio. Le fatiche del cavatore di pietre — antico mestiere dei Colli che indizi sembrano datare sino all’età protostorica — si sono rapprese nel famoso Madonna delle cave, sempre del Mantegna, oggi conservato agli Uffizi di Firenze.
Una tradizione popolare vuol riconoscere nel profilo del Castello di San Martino di Cervarese nel paesaggio che fa da sfondo al famoso quadro di Giorgione (La Tempesta), anche se altri propendono per riconoscervi la sagoma delle mura di Castelfranco, città dove l’artista nacque e realizzò molte delle sue opere.
Verso la fine del ‘700 saranno le incisioni di Pietro Chevalier a proporci la prima interpretazione del sapore dei luoghi. Di Arquà, innanzitutto, di cui descrive lo squallore nell’opuscolo che contiene le immagini – Una visita ad Arquà è il titolo – e in cui condanna anche l’incuria e il disprezzo di quei rozzi abitanti, indegni della fama del sommo poeta e intenti a bersagliarne il busto con le palle dei loro archibugi.
Altre citazioni più occasionali ci riferisce, ad esempio, il Moschini, il quale nel suo Viaggio per l’antico territorio di Padova descrive a Rovolon presso la Chiesa di Santa Giustina una tavola che rappresenta la Madonna del Rosario con i Santi Benedetto e Giustina, e al basso la veduta della casa della Rettoria e de’ Colli vicini, di autore ignoto ma che ricorda la scuola di Paolo. Il dipinto non è stato riscontrato dal Fantelli. Esiste ancora, invece, la pala dell’altare maggiore nella Chiesa di San Marco a Montegalda — datata 1607 e attribuita al pittore Alessandro Maganza – che rappresenta nello sfondo un paesaggio collinare, mentre alla base sono raffigurati i ritratti dei due fratelli Chiericati (i vescovi Francesco e Lodovico), membri della famiglia che ne godeva lo Jus Patronati.
Bisognerà aspettare l’avvento della fotografia per avere la prima ricognizione visiva a largo raggio dell’area collinare. E sarà Paolo Minotti l’editore (e forse anche l’autore) di una serie fotografica che descriverà il paesaggio euganeo nel primo decennio del ‘900 con rappresentazioni in cui la valenza descrittiva è talvolta sopraffatta dal gusto compositivo che utilizza presenza e figure umane.
Presto anche poeti e pittori saranno attratti dalla bellezza intima e castigata dei colli: una bellezza che va conquistata palmo a palmo, che … riserva ogni giorno una nuova sorpresa -come testimonia nei suoi appunti Mario Disertori, uno degli artisti che sceglieranno Teolo come paesaggio dell’anima, dolce e piacevole allo sguardo, ristoro per lo spirito nel profilo dei suoi colli, nei colori delle sue stagioni, negli scorci suggestivi delle sue vallate.
La predilezione per l’ambiente euganeo si manifesta anche nel gruppo veneziano dei vari Mori, Varagnolo, lo stesso Disertori, Novati, Seibezzi, e specie in Carlo Dalla Zorza che elegge a dimora prediletta – dopo l’esperienza a Burano – proprio quel Teolo che divenne quasi il luogo ideale dove sperimentare e mettere in atto le nuove ragioni dell’arte. Egli non è l’unico a fare questa scelta: tanto che, senza voler essere irriverenti, si potrebbe assimilare Teolo a quello che per alcuni impressionisti rappresentarono la foresta di Fontainebleu o alcune località della Bretagna.
E forse affascinati dalla naturalezza dei luoghi contrapposti all’artificio ed all’inquinamento visivo, acustico e culturale che in quegli anni – tra i Cinquanta e i Sessanta – comincia proprio a colpire la città. Al fenomeno appare particolarmente sensibile Antonio Morato che dopo un primo periodo di canto idilliaco del paesaggio collinare, trasferisce nei suoi oli il fastidio per l’avanzare della civiltà anche nei Colli.